Licenziamento per giusta causa. Abuso permessi ex legge 104/92 a seguito di investigazioni private – mancanza dei presupposti – reintegro nel posto di lavoro

Interessante ordinanza resa a seguito di licenziamento per giusta causa disposto nell’ambito della legge 92/2012. Nel dichiarare l’illegittimità del recesso aziendale e nel disporre la reintegrazione di una lavoratrice, ritenuta dall’azienda responsabile di indebita fruizione di permessi ex legge 104/92 per non aver reso assistenza in termini di presidio presso la parente disabile, il Tribunale, richiamando giurisprudenza di legittimità e senza compiere alcuna istruttoria ha affermato la non necessità di svolgimento esclusivo di attività strettamente legate alla cura e assistenza, e che l’abuso del diritto si configura quando il datore di lavoro comprovi che il lavoratore, durante le ore di assenza, abbia utilizzato i permessi per fini totalmente estranei, neppure indirettamente collegati alla cura del disabile, ben potendo questi fruire del beneficio per assistenza in termini indiretti ed estranei, ma collegabili all’attività di assistenza (come ad es. lavaggio lenzuola, abiti, bucato, cucinare cibi, accogliere l’assistita presso la propria abitazione).o

TRIBUNALE DI VITERBO

Sezione Lavoro

Il Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, ha pronunciato la seguente ORDINANZA (ai sensi dell’art. 1 co. 48 e ss. Legge 92/212) nel procedimento n. 1823 del Ruolo Generale per gli affari contenziosi di lavoro dell’anno 2018, vertente tra _____________ _____________ (con gli Avv.ti Riccardo Chilosi e Leonardo Chilosi) e _____________ (con l’Avv. ________) a scioglimento della riserva assunta in data in data odierna;

PREMESSO

che con ricorso depositato in data 03 dicembre 2018 la ricorrente ha adito questo Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro esponendo di aver lavorato alle dipendenze della società resi­stente, presso la filiale di Vetralla, in qualità di addetta alla gastronomia, con qualifica di livello 4, dal 2005 al 18 luglio 2018, data in cui veniva licenziata per giusta causa; di aver prestato attività lavorativa sei giorni alla settimana, prevalentemente di mattina, tranne il giovedì in cui era previ­sto il turno pomeridiano; che, in qualità di rappresentante sindacale, negli ultimi anni di servizio, si era battuta contro gravi comportamenti della società resistente concernenti la prassi di far coincidere i giorni di riposo settimanale con i giorni impiegati dai fruitori della legge 104/92; che aveva fruito dei permessi ex legge 104/92 per fornire assistenza alla madre affetta da ““patolo­gia neurologica con bipolarità grave”, sia con cura diretta sia procedendo a svolgere altre attività, ma sempre al servizio della madre stessa; che in data 10 maggio 2018 aveva ricevuto contestazione disciplinare di un grave abuso di tali permessi, sul presupposto che, nei giorni di 24 e 27 marzo, la stessa avrebbe, prestato assistenza alla congiunta per sole 3 ore e 40 minuti, mentre negli altri giorni, in cui era stata pedinata, non avrebbe prestato nessuna assistenza; che, dopo essere stata sospesa, aveva provveduto a rendere verbalmente, in un apposito incontro, proprie giustifica­zioni per ognuna delle giornate contestate; che, con raccomandata del 10 luglio 2018, era stata licenziata per giusta causa.

In diritto ha dedotto che le accuse avevano un chiaro intento ritorsivo e non comprovano il ri­tenuto inadempimento contrattuale, ossia l’abuso del diritto di assentarsi riconosciuto dalla leg­ge 104/1992; che le ore di permessi erano state integralmente dedicate all’assistenza alla madre, con conseguente illegittimità del licenziamento; che la società aveva erroneamente valutato le circostanze emerse durante l’attività investigativa, escludendo che le ore passate in casa dalla ri­corrente integrassero un’attività di assistenza alla madre; che, facendo coincidere le proprie esi­genze familiari con quelle dirette all’assistenza della disabile, aveva concentrato l’assistenza diret­ta nella tarda mattinata e nel pomeriggio e dedicato il resto delle ore ad assolvere compiti di assi­stenza indiretta; che al suo comportamento non poteva attribuirsi alcuna valenza disciplinare che giustificasse un licenziamento, ma al più poteva giustificare l’irrogazione di una sanzione conservativa; che la sanzione del licenziamento era sproporzionata a fronte dell’insussistenza del fatto di abuso asserito e dell’assenza di precedenti interventi disciplinari; che il licenziamento doveva ritenersi finalizzato unicamente alla estromissione dall’azienda di una dipendente che, nella sua veste sindacale, aveva negli ultimi anni rivendicato il diritto alla non coincidenza dei ri­posi compensativi settimanali con le giornate di riposo per assistenza di un famigliare disabile. Ha quindi concluso chiedendo: “in via principale, accertare e dichiarare la nullità del licenziamento com­minato alla sig.ra _____________ _____________ in data 10.7.2018 (ricevuto il 18.7.2018), per discriminatorietà e/o illi­ceità del motivo dello stesso; e per l’effetto, condannare la soc. _____________ s.r.l, in persona del legale rappresentante pro tempore, al ripristino della funzionalità del rapporto di lavoro ed al risarcimento del danno pari ad un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto pari a 1486,38 maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione. con condanna altresì della soc. _____________ s.r.l, in persona del legale rappresentante pro tempore, al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dovuti per il periodo dal licenziamento sino all’effettiva reintegrazione del ricorrente nel proprio posto di lavoro; in via subordinata, accertare e dichiarare che, nel caso in esame, non ricorrono gli estremi della giusta causa addotti dalla sc. _____________ s.r.l, per insussistenza del fatto contestato e/o perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collet­tivi applicabili in azienda e/o del codice disciplinare applicabile al rapporto di lavoro e/o per evidente difetto di proporzionalità; e per l’effetto, visto il 4° comma dell’art. 18 1300/70, dichiarata la illegittimità del licenzia­mento impugnato, condannare la soc. _____________, in persona del legale rappresentante pro tempore, alla reintegrazione della sig.ra _____________ _____________ nel proprio posto di lavoro ed al pagamento di un ‘indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto percepita dal ricorrente pari a 1486,38 dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e comunque nella misura massi­ma di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre al pagamento dei contributi previdenziali ed as­sistenziali per il periodo dal licenziamento all’effettiva reintegra; in via di ulteriore subordine, accertare e dichia­rare che, nel caso in esame, non ricorrono — in ogni caso — gli estremi della giusta causa addotti dalla soc. _____________ s.r.l; e per l’effetto, condannare la medesima soc. _____________ s.r.l, in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento di un l’indennità risarcitoria onnicomprensiva — ai sensi del 5° comma dell’art. 18 stat. lav. — nella misura massima di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globa­le di fatto percepita, vista l’anzianità del ricorrente e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimen­sioni dell’attività economica e del comportamento della convenuta; in ogni caso, condannare la convenuta al paga­mento delle spese di lite.”

La società resistente, costituitasi in giudizio, ha chiesto “la reiezione di tutte le domande attrici per in­fondatezza in fatto ed in diritto con vittoria di spese; in ipotesi, in caso di ritenuta illegittimità, inefficacia, nullità del licenziamento, per la detrazione dalle somme riconosciute alla ricorrente del c.d. aliunde perceptum e del c.d. aliunde percipiendum, con compensazione di spese.”

Ha negato il carattere ritorsivo del licenziamento comminato, in quanto la ricorrente aveva sempre fruito dei permessi ex legge 104/1992 ad ogni richiesta; che dalle indagini investigative era risultato che nei giorni 7 e 27 marzo 2018 aveva dedicato solo poche ore all’assistenza della madre disabile e che nei giorni 7, 21 e 28 aprile 2018 non aveva svolto alcuna attività di assi­stenza; che le richieste di permessi coincidevano sempre con il sabato; che la ricostruzione dei fatti nonché le giustificazioni orali rese dalla ricorrente non rispondono al vero e provano che la stessa aveva abusato dei permessi ex legge 104/92 non dedicandosi all’assistenza della madre; che tali permessi devono essere fruiti in coerenza con la loro funzione e che, in assenza di un nesso causale tra assenza dal lavoro e prestazione di assistenza, si dovevano ritenere violati i principi di buona fede e di correttezza nei confronti della datrice di lavoro, privata ingiustamen­te della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nella dipendente.

OSSERVA

I permessi ex art. 33 legge 104/92 consistono nella possibilità per il lavoratore, che ha un fami­gliare affetto da disabilità, di fruire di permessi retribuiti appositamente destinati ad assistenza e cura del disabile.

Infatti, nel testo della legge n. 104 del 5 maggio 1992 si legge, all’art. 33, che i permessi da lavoro retribuiti possono essere concessi al lavoratore familiare di soggetto con disabilità soltanto a specifiche condizioni, ovvero: “a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravita’, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravita ’ abbiano compiuto i sessantacinque anni di eta ’ oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribui­to coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa. Il predetto diritto non può essere ricono­sciuto a più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravi­ta’. Per l’assistenza allo stesso figlio con handicap in situazione di gravita’, il diritto e’ riconosciuto ad entrambi i genitori, anche adottivi, che possono fruirne alternativamente”.

La fattispecie di abuso di permessi retribuiti si concretizza quando durante le ore di assenza dal lavoro si svolgono attività diverse da quelle preordinate all’assistenza del disabile: ciò non signi­fica che detti permessi siano fruibili solo per mansioni strettamente legate alla cura e all’assistenza del familiare disabile, ma che assume rilievo disciplinare esclusivamente l’utilizzo delle ore di permessi per scopi totalmente estranei, neppure indirettamente collegati, all’assisten­za del disabile. Una tale condotta del lavoratore comporta una violazione del principio di corret­tezza e di buona fede ed è lesiva dei diritti del datore di lavoro.

La Suprema Corte ha, infatti, chiarito che “Il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, si avvalga dello stesso non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi di abuso del diritto, giacché tale condotta si pa­lesa, nei confronti del datore di lavoro, come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente, ed integra, nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assi­stenziale” (Sez. L, Sentenza n. del 04/03/2014 rv. 629667 – 01). L’utilizzo dei suddetti permessi per scopi personali e diversi da quelli per cui sono concessi integra conseguentemente una ipo­tesi di abuso del diritto idonea a ledere il rapporto fiduciario e a giustificare conseguentemente il licenziamento per giusta causa (cfr. tra le altre Cass. n. 5574/16 e Cass. n. 9217/16). Incontestata è altresì la possibilità per il datore di lavoro di svolgere controlli e raccogliere le prove dell’uso illegittimo dei permessi, anche attraverso attività di investigazione. Una attività di tal genere non può infatti ritenersi preclusa dagli artt. 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori poiché “il controllo, demandato dal datore di lavoro ad un’agenzia investigativa, finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio, da parte di un dipendente, dei permessi ex art. 33 legge 5 febbraio 1992, n. 104 (contegno suscet­tibile di rilevanza anche penale) non riguarda l’adempimento della prestazione lavorativa, essendo effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorati­va” (Sez. L, Sentenza n. del 04/03/2014 rv. 629666 – 01).

Nel caso in esame, alla ricorrente sono state contestate le seguenti attività:”Il24 marzo 2018 alle ore 11.30 Lei è uscita dalla Sua abitazione in Piazza Europa 11 a Vetralla, in compagnia di Suo figlio e, a bordo della Sua autovettura Toyota Rav 4 di colore grigio metallizzato targata DG102CT, è giunta a casa di Sua madre in Viale Giovanni XXIII, Vetralla, alle ore 11.40 circa. Lì ha fatto salire in macchina due perso­ne anziane, presumibilmente i Suoi genitori. Alle ore 12.10 ha parcheggiato l’auto in Via Monfalcone a Viter­bo nei pressi della Casa di Cura privata “Satus” dove si è recata insieme ai due soggetti su menzionati. Alle 13.15 ha lasciato la casa di cura e alle 13.40 è giunta nuovamente presso l’abitazione di Sua madre dove ha accompagnato i due signori. E’ rientrata presso la Sua abitazione alle ore 13.48 e alle 16.50 circa è uscita nuo­vamente con il Suo compagno e Suo figlio e si è diretta in località Montefiascone in una villetta posta in una strada parallela a via Cipollone dove vi è rimasta fino a oltre le ore 18.30. Il 27 marzo 2018 -fino alle ore 17.30 non si è recata a casa di Sua madre. Il 7 aprile 2018 non vi è traccia della Sua presenza all’indirizzo fornito all’Azienda come residenza del familiare assistito né è stata individuata nei paraggi la Sua autovettura, anzi risulta che Lei, almeno fino alle ore 16.00, non è mai uscita dalla Sua abitazione. Il 21 aprile 2018 ana­logamente al giorno 7 aprile 2018 Lei non è uscita dall’abitazione di Piazza Europa 11 né vi è traccia della Sua presenza all’indirizzo fornito all’Azienda come residenza del familiare assistito né è stata individuata nei paraggi la Sua autovettura. Il 28 aprile 2018 analogamente ai giorni 7 e 21 aprile 2018 Lei non è uscita dall’abitazione di Piazza Europa 11 né vi è traccia della Sua presenza all’indirizzo fornito all’Azienda come residenza del familiare assistito né è stata individuata nei paraggi la Sua autovettura fino alle ore 18.30 circa, orario in cui è uscita dalla Sua abitazione con il Suo compagno per recarsi, a bordo della Rav 4, in direzione di Viterbo.”.

Ciò nonostante, le prove raccolte dalla resistente non appaiono sufficienti a dimostrare la sussi­stenza del fatto oggetto della contestazione, vale a dire l’utilizzo dei permessi a scopi diversi da quelli per i quali erano stati concessi, consistenti nell’assistenza della madre disabile. Partendo dall’assunto che l’abuso presuppone l’impiego del permesso a scopi diversi da quelli di assisten­za, non potrebbe ritenersi estranea allo scopo lo svolgimento, nell’interesse dell’invalido, di atti­vità varie, non strettamente personali (igiene personale, vestiario, deambulazione, ecc.), e neces­sarie alla vita quotidiana, come l’acquisto di medicinali o di generi alimentari, il ritiro di plichi all’ufficio postale e, più in generale, lo svolgimento di commissioni presso uffici pubblici (ivi compresa la prenotazione di visite mediche), che il diretto interessato non sarebbe in grado di svolgere autonomamente. Anche tali attività vanno genericamente ricondotte nell’attività di assi­stenza, con la conseguenza che nello svolgimento di tali attività non può essere ravvisata alcuna ipotesi di abuso. A tale ambito devono appartenere anche attività solo indirettamente e perfino eventualmente collegate con le esigenze di cura ed assistenza dell’invalido: nel caso di specie, si ravvisa un collegamento con l’esigenza di assistenza nelle ipotesi concernenti il lavaggio delle lenzuola, abiti ed altri tessuti di casa della madre e la relativa stenditura; accompagnare la madre disabile e la nonna alla casa di cura dove era ricoverato il nonno in gravissime condizioni; fare il bucato e cucinare i cibi per tutta la settimana successiva della madre, trattandosi di attività assi­stenziali che non hanno consentito alla ricorrente di recarsi presso l’abitazione della disabile; as­sistere il figlio colto da una febbre molto alta e farsi portare la madre disabile presso la sua abi­tazione; far restare a dormire la madre disabile presso la sua abitazione al fine di assistere conte­stualmente anche il figlio ancora convalescente.

Così intesa l’attività di assistenza, deve allora ritenersi che il mero allontanamento dall’abitazione del familiare invalido, non sia sufficiente ad integrare l’illecito, ove, come nel caso di specie, non si dimostri che l’uscita era volta al perseguimento di interessi del tutto personali del lavoratore e comunque estranei al familiare inabile.

Inoltre, la prova dell’abuso è a carico di chi la deduce riconoscendogli rilievo disciplinare e, nel caso in esame, i documenti prodotti non sono sufficienti a dimostrare la sussistenza di attività il­lecite.

La prova dell’abuso è notoriamente a carico di chi la deduce riconoscendogli rilievo disciplinare e, nel caso in esame, incontestato l’esito degli accertamenti investigativi, gli elementi forniti non sono sufficienti a dimostrare la natura illecita della fruizione dei permessi. La domanda proposta dalla ricorrente va conseguentemente accolta.

Alla fattispecie deve ritenersi applicabile l’ipotesi di cui all’art. 18 co. 4 S.L. nella formulazione di cui alla L. 92/2012 applicabile ratione temporis il quale prevede l’illegittimità del licenziamento al­lorché non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa per insus­sistenza del fatto contestato o perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, prevedendone conseguentemente l’annullamento e la condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, con il limite delle dodici mensilità e dedotto quanto il lavoratore abbia percepito, nel periodo di estromissione, per l’eventuale svolgimento di altre attività lavorative, nonché di quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupa­zione. Vale solo la pena di sottolineare come alla ipotesi della insussistenza del fatto debba ne­cessariamente equipararsi quella della condotta, materialmente esistente, ma priva di antigiuridi­cità. Nella specie non vi sono elementi per ritenere la percezione di redditi lavorativi, né la man­canza di diligenza nella ricerca di nuove occupazioni.

Ne deriva la condanna della società convenuta alla reintegrazione della lavoratrice e al pagamen­to della indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto (quantificata senza conte­stazioni in € 1.486,38) dalla data del licenziamento (18.7.2018) fino a quello della reintegra. La società resistente va altresì condannata al versamento dei contributi previdenziali ed assisten­ziali maggiorati degli interessi nella misura legale, senza applicazione di sanzioni per omessa o ri­tardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall’illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative.

Le spese del procedimento seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata in di­spositivo.

P.Q.M.

Accogliendo il ricorso proposto da _____________ _____________ nei confronti di _____________ (già _____________________ Srl) annulla il licenziamento intimato in data 18.7.2018 per assenza di giusta causa dovuta all’insussistenza del fatto contestato;

ordina alla _____________ in persona del legale rappresentante p.t. la reintegra­zione della ricorrente nell’originario posto di lavoro con le stesse mansioni, inquadramento e trattamento giuridico ed economico, nonché al pagamento in favore della medesima ricorrente dell’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto pari ad € 1.486,38, dalla data del licenziamento all’effettivo reintegro e al versamento dei contributi previdenziali dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione;

condanna _____________ in persona del legale rappresentante p.t. al pagamento delle spese di lite liquida in euro 2.680,00 per compensi professionali, oltre rimb. forf. spese ge­nerali, IVA e CPA come per legge.

Viterbo, lì 04 febbraio 2019

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