Si leggono sul sito del Partito Democratico, molte iniziative legislative finalizzate a snellire e razionalizzare il processo civile, piaga che affligge dal secondo dopoguerra il nostro paese.

Il programma elettorale del 2018 contiene ulteriori spunti, ma questi non sembrano suggerire le modifiche di rotta che il tema impone.

Traggo esempio dal disegno di legge approvato dalla Camera dei Deputati il 10 marzo 2016 e non tradotto in legge per la recente conclusione della Legislatura.

Lo stesso conteneva una serie di iniziative normative finalizzate a migliorare l’efficienza del giudizio civile e ciò nel tentativo, dichiarato, di ridurre i tempi biblici della Giustizia Civile, oggetto di varie condanne dell’Italia da parte della Corte dei diritti Umani di Strasburgo.

Tra esse, l’art. 1 comma 2° sub. A) 1, rifacendosi a precedenti esperienze, non manifestatesi solutorie dell’eccesso di contenzioso, indicava, come “criterio direttivo”, quello di valorizzare l’istituto del “tentativo di conciliazione”, compiuto dal giudice, autorizzato anche a formulare, in prima udienza, una proposta di conciliazione in linea con le previsioni di cui agli artt. 185 e 185 bis del c.p.c., accompagnate da forme di penalizzazione processuale per la parte a tal fine non comparsa.

Una tale previsione, in linea con la tendenza ad attuare una deflazione giudiziaria mediante forme di intervento mediatorio del giudice, anche alla luce delle esperienze maturate “sul campo”, non appare condivisibile, né efficace e deve essere radicalmente ridiscussa.

La stessa infatti, più che ad un incremento di efficienza del sistema giustizia, così come ipotizzata dal Legislatore e come gestita nella prassi, viene ad accentuare più che a scoraggiare il contenzioso ed a rallentare più che a velocizzare l’iter delle cause civili, determinando un appesantimento della funzione giurisdizionale, con una superfetazione di ruoli, non sempre utile e spesso foriera di impreviste incertezze aggiuntive, ambiguità e confusione.

Ciò soprattutto nelle parti in causa (chiamate spesso dal Giudice, a dispetto della funzione del difensore, a vivere personalmente e direttamente l’esperimento traumatico del “contatto” con il mondo giudiziario e con l’Ufficio) le quali non traggono beneficio dal vivere una simile esperienza e che hanno difficoltà a ravvedere nel Giudice (tradizionalmente e culturalmente identificato come l’organo chiamato, asetticamente, a dirimere il loro caso secondo giustizia) un indefinito quanto incompreso mediatore.

Il mediatore, nella tradizione giuridica e culturale, non è organo assolutamente “terzo”, ma è connotato da una veste Gianica di bivalente fiduciarietà personale – portatore, anche nello spirito della direttiva comunitaria 2008/52 (che attribuisce al giudice un potere di impulso della mediazione e non certo la gestione della stessa), dell’esigenza di soddisfare l’interesse, certamente comune alle parti, ma anche pubblico, di veder saggiamente composta, auspicabilmente con l’apporto degli avvocati, una lite prima che la stesse sfoci in contenzioso giudiziale.

Una fase mediatoria preventiva (sia se incarnata da un soggetto all’uopo incaricato, sia se svolta in contraddittorio dai legali), essendo particolarmente incidente, se positivamente esercitata, nella deflazione del contenzioso, non può essere sottovalutata dal Legislatore, che deve al riguardo adottare norme di procedimentalizzazione della gestione in termini efficienti e professionali, necessitando la stessa di specifica competenza tecnica, della conoscenza del caso, della valutazione strategico economica della convenienza delle parti a transigere, della capacità di identificare il complesso punto di incontro, caratteristiche non sempre riscontrabili in un giudice, non idoneo al compito, se non altro perché non formato ad hoc, né scelto dalle parti, ma imposto dal sistema.

Lo specifico ruolo di “mediatore autorevole”, notoriamente, impone il possesso di un bagaglio tecnico, economico, sociologico e psicologico, di ascendenza e di fiduciarietà, componente non richiesta, né valorizzata, nei concorsi di Magistratura, prevalentemente incentrati sull’approfondita conoscenza tecnico giuridica di norme e di giurisprudenza.

Peraltro, ove rimesso alla Magistratura, detto ruolo, in carenza di un rito codificato, non risulta gestito, né gestibile, con la dovuta uniformità e logica da parte dei singoli giudici/mediatori, e risulta spesso compiuto (più che nella ricerca all’autentico o quantomeno prevedibile, punto di caduta transattivo della vertenza, ben noto agli avvocati) sulla base di fattori imprevedibili e diversi, quali il mero contenuto economico delle domande, così come formulate negli atti introduttivi, le caratteristiche sui generis della causa, la apparente complessità dell’impegno istruttorio sulla ricostruzione in fatto, le apparenti difficoltà ad affrontare le questioni giuridiche a base della domanda o delle eccezioni, risultando per di più condizionati dalla diversa dedizione, dal carattere, dall’ideologia o dalla personalità dei singoli giudicanti, non potendosi escludere l’impatto emotivo circa la condizione delle parti o altre componenti discrezionali di imprevedibile valenza.

Una siffatta fase (tentativo di conciliazione), divenendo istituzione, viene a condizionare inevitabilmente la stessa posizione di partenza delle parti e dei loro avvocati i quali, nella definizione della strategia stragiudiziale e/o processuale a difesa del cliente, non si rifanno solo al “caso giuridico”, valutato ex sé, ma, stante la imponderabile fase di “filtro transattivo”, utilizzano, anche cinicamente, a loro vantaggio, un simile approccio “preventivo” del giudizio, che viene distorto dai binari normali, anche per i ritardi che comporta, e viene percepito dal cittadino non come tipico del sistema, ma come un “difetto della funzione giudiziaria”, contrastante, nei fatti, con la ricerca dell’autentica verità e giustizia.

L’esperienza ha fatto emergere come la componente mediatoria del giudice, soprattutto se identificata (come giustificato dalla stessa politica normativa) come attività obbligatoria e finalizzata ad eliminare processualmente la contesa anziché a risolverla, non sia percepita come positiva, ed induca paradossalmente le parti e gli avvocati, anziché ad incrementare una ricerca preventiva ed extraprocessuale delle vertenze, a valorizzare, nel presupposto di soluzioni transattive intermedie e semplicistiche del conflitto, impostazioni velleitarie e temerarie delle linee d’azione /o difensive.

La ricerca di soluzioni mediatorie endoprocessuali, compiuta per eliminare i tempi lunghi della giustizia civile, anziché solutorie, divengono così fonte di aggravamento del problema e condizionano ancor più l’atteggiamento dei cittadini e degli operatori commerciali, anche stranieri, di fronte alle vicende giudiziarie italiane, disaffezionando e distorcendo il loro rapporto con il mondo della giustizia.

Siamo tutti testimoni di quante rivendicazioni gonfiate o richieste di danno, oggettivamente improbabili, siano sottoposte alla Magistratura nel presupposto di molti di creare o gonfiare il contenzioso, al fine di approfittare di un sistema che, anziché dispensare sentenze, sforna, nelle prime udienze ed in gran percentuale, reiterati e semplicistici inviti a “chiudere la controversia”. Le transazioni non divengono quindi figlie del giusto punto di caduta del caso giuridico, ma solo dell’uso distorto di parti, a volte callide, del sistema e di una ricerca di facile via di fuga da parte dei magistrati.

Siamo parimenti testimoni di  come sia ormai prassi frequente che molte parti convenute, pur consapevoli di essere in torto o comunque più che consce della ardua difendibilità delle loro posizioni, preferiscano adottare tattiche spregiudicate negatorie dell’evidenza,  per sparigliare le carte e perdere tempo, anche a costo di non apparire tecnicamente credibili, nell’auspicio, spesso premiato, di veder ridimensionato l’obbligo della parte rappresentata, a seguito della capitolazione della controparte attrice ad accettare soluzioni transattive in perdita, non per debolezza della posizione giuridica, ma esclusivamente a fronte dell’incertezza dei tempi e dei costi di una realizzazione giudiziale del diritto rivendicato.

L’intento manifestato dal legislatore a stimolare interventi mediatori del Giudice non appare una soluzione meditata, ma solo una disperata ricerca di interrompere, con un mezzo sostanzialmente atecnico, quanto spesso ingiusto, quell’accesso alla tutela giudiziaria che l’ordinamento, in linea con il 1° comma dell’art. 24 della costituzione, dovrebbe favorire.

In effetti una simile normativa, anziché orientata a consentire una giusta ed equilibrata gestione dei conflitti, impedendo quelli inutili o risolvibili con soluzioni alternative, non sembra tesa ad impedire, nel presupposto del contrasto alla litigiosità, la “nascita” delle controversie, quanto veder comunque introdotti i giudizi (attribuendo inizialmente un carico di ruolo ai magistrati), ma poi a farli “morire” in corso di processo. Trattasi di politica oggettivamente illogica e dispendiosa, contrastante tra l’altro con l’utilizzazione corretta della vera professionalità della classe decidente e con le vere necessità dei cittadini, titolari di diritti da realizzare, ansiosi comunque, in caso di fallimento delle trattative e di inizio di una procedura giudiziale, a vederla terminare velocemente con un verdetto.

I cittadini, in effetti, se si vedono costretti, a seguito del fallimento di altri mezzi, ad assumersi gli oneri ed i rischi del giudizio, lo fanno per avere una decisione del magistrato, non certo per essere da questo aiutati a fare ciò che, da soli o per tramite degli avvocati, sono in condizione di fare benissimo.

E’ opinione di molti che il numero e la lunghezza delle cause civili dipenda da una poco corretta gestione delle controversie da parte degli avvocati, che non collaborano alla definizione preventiva dei conflitti, preferendo sempre la contesa giudiziale, da cui trarrebbero utilità economica in ragione del trascinamento nel tempo delle liti. Ciò, nel settore civile, è vero solo in minima parte e, per di più, non dipende da una scorretta etica professionale, ma della vera tara del sistema, la lunghezza dei tempi con cui i conflitti, dopo essere stati introdotti giudizialmente, giungono a decisione, tenuto anche conto che i rinvii “lunghi” (quelli ad es. di fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni), che costituisco il vero cancro del sistema e che generano sempre proteste delle parti, dipendono esclusivamente dal carico di lavoro dei magistrati e del tempo loro necessario per stendere le motivazioni.

In Italia, il cittadino che deve realizzare un diritto non ha certo di fronte a se uno Stato che, con impianto normativo snello e chiaro, sia in condizione di dare certezza di regole e garantire efficienza di decisione. Chi ha subito un torto sa bene che, per ottenere soddisfazione, deve tuffarsi in una sarabanda di norme, leggi, articoli, avvocati, carte, fascicoli, contributi, tasse, udienze fissate ad anni, rinviate per nulla, oneri per imposte di registrazione ecc. e magari, giunto all’ottenimento del titolo esecutivo, ad onta della certezza del diritto, rimanere totalmente abbandonato a se stesso, coinvolto in una fase “esecutiva” dei provvedimenti nel quale la realizzazione dell’ordine giudiziale si presenta talmente farraginoso ed inefficace da scoraggiare anche i più tenaci.

Le argomentazioni spesso rese in fase di mediazione dai giudici (che, paradossalmente, rappresentano lo Stato), non sono peraltro incentrate sulle problematiche del singolo caso giuridico, spesso non approfondito dal giudicante, ma, essendo dettate dal desiderio di accordare le parti e con ciò, di far cancellare la causa dal ruolo, fanno leva su aspetti generici e che lo Stato stesso non dovrebbe neppure accennare.

I magistrati, tra le varie ragioni di convincimento delle parti, tentato infatti di far capire al cittadino che lo Stato non ce la fa a rendere celermente uno dei servizi più importanti per cui esiste e per il quale fa pagare non indifferenti contributi. Il tentativo di mediazione, in molti casi, viene quindi a costituisce una vera e propria “farsa”, celata dietro un imbarazzante “placebo conciliativo”, surrettiziamente elevato a funzione giurisdizionale, poco importa se ingiusta, sbilanciata o comportante una compromissione, anche grave, dei diritti di una delle parti.

Una tale svilente funzione, spesso sintomo di una resa della giustizia, non appare affatto scoraggiata o rifiutata dalla gran parte dei giudici, che anzi, utilizzandola, contribuiscono accentuarne un’ulteriore distorsione. Sono spesso proprio gli stessi magistrati che, pur in teorica condizione di risolvere agevolmente un caso, se ne astengono e consigliano le parti a raggiungere comunque forme conciliative. A tal fine rappresentano alle parti un quadro drammatico della vertenza; ricordano quanto l’esercizio giurisdizionale per ottenere ragione sia frastagliato di insidie e di sabbia, di costi e di tempi, aggiungendo, da parte loro, che le decisioni sono incerte, spesso riformabili o riformate, insomma che non esiste la certezza del diritto e che i tempi rapidi nella riparazione dei torti sono delle chimere. Trattasi di vero e proprio terrorismo transattivo, che, pur se innegabilmente raggiunge il risultato di far in qualche modo “chiudere” la causa, non nobilita certamente il mediatore, pagato e selezionato per compiere ben altra funzione.

Il paradosso è che alcune attuali previsioni normative processuali impongono addirittura al giudice di formulare, a fronte delle mere posizioni di partenza delle parti, e senza che, agli atti, siano desumibili più di tanto elementi utili a comprendere la ricaduta delle rispettive deduzioni ed argomentazioni, una proposta transattiva, anche articolata. Tali previsioni normative sono in molti casi oggettivamente imbarazzanti e non consone alla delineata funzione rimessa dal sistema alla Magistratura. Creano infatti ulteriore confusione nella parte che,  spesso presente in udienza, anziché assistere (dopo aver supportato il proprio avvocato con dati, elenchi, nomi, documenti, dopo aver sostenuto costi e dopo aver atteso mesi in attesa dell’agognata udienza) ad un attento e risolutivo intervento decisionale del giudice, vedono il magistrato che, preso il suo fascicolo, nemmeno lo apre e, leggendo distrattamente le conclusioni degli atti, si attiva energicamente per chiudere la vertenza, invitando minacciosamente le parti a raggiungere un accordo. Per evitare di emettere il provvedimento richiesto, il giudice viene così a comportarsi in modo opposto a quanto il cittadino da lui si attende.

Ma vi è da chiedersi. E’ necessario che detta delicata funzione tecnico/psicologica, molto spesso vana ed inutile, tanto costosa, defatigante e poco concludente, sia gestita “nel processo” da rappresentanti dell’Organo costituzionale giudiziario, composto da validi giuristi, tecnicamente selezionati non per fare da “pacieri”, ma per compiere valutazioni di diritti, scrivere motivazioni ed amministrare la funzione autoritativa della Giustizia?

E’ intuitivo domandarsi se ciò sia conveniente e sia politicamente opportuno che un simile compito sia svolto dai magistrati, i cui arretrati sono notoriamente biblici, ovvero non possa più proficuamente assolto da altre figure, consentendo che ogni minuto dell’attività dei giudici sia concentrato a recuperare l’arretrato non cancellando le cause dal ruolo (con moria naturale) ma a svolgere quella che è la funzione principale per cui sono stati assunti e sono pagati: studiare le cause, istruirle e deciderle.

Non si nega che uno dei modi di alleviare il carico di lavoro della Magistratura sia quello di evitare il contenzioso, intercettare preventivamente i conflitti ed impedire l’ingolfamento degli uffici giudiziari.

Tale risultato, che, notoriamente, si risolve con lo snellimento della normativa, con la semplificazione delle procedure, con l’aumento degli organici, non può non avvalersi anche della ricerca di soluzioni di composizione preventiva dei conflitti.

Ciò deve essere tuttavia compiuto in sedi diverse da quella giudiziale, dovendosi evitare che le questioni giungano sul tavolo del magistrato senza che si siano tentate autonome e proficue vie transattive e che quando la causa sia introdotta in giudizio, il Magistrato la debba e le possa decidere prima possibile, senza svolgere alcuna, neppur residua, funzione mediatoria, considerando fattori estranei al giudizio ovvero elementi negativi, tutte le iniziative pubbliche finalizzate a far abortire in modo surrettizio un servizio che, istituzionalmente, deve concludersi con una sentenza.

 

Assurdità della proposta di deflazionare il contenzioso estendendo il rito sommario a tutti i giudizi monocratici

Sempre nell’auspicio di snellire i tempi del contenzioso civile si inserisce la proposta, recentemente formulata dalla Commissione Bilancio, e fortunatamente celermente ritirata, di rendere veloci i giudizi civili attraverso una gestione sommaria delle cause, ritenuta proceduralmente snella.

Tale soluzione sarebbe quella di ridurre le facoltà dispositive delle parti nel processo, che dovrebbero limitarsi a definire il petitum e le ragioni delle difese, attribuendosi ai magistrati il potere di gestire sommariamente tutti i giudizi di primo grado in termini sostanzialmente inquisitori e con omissione di ogni formalità e procedendo alla istruzione nel modo personalistico ritenuto più opportuno, anche disponendo d’ufficio prove e documenti.

Una tale iniziativa, sulla cui utilità ai fini di una velocizzazione dei giudizi è dato di dubitare,  si manifesta oggettivamente pericolosa. La stessa, da un lato aumenterebbe a dismisura ed incontrollatamente il potere già ampio dei magistrati, dall’altro contrasterebbe con il diritto costituzionale di difesa.

Ed invero, venendo meno alcuni capisaldi propri del diritto processuale civile, primo tra tutti quello del bilanciamento tra fatti dedotti, documenti allegati, prove richieste e prove ammesse, non si verrebbe a realizzare nella pienezza processuale, un corretto contraddittorio, rispettoso del potere dispositivo delle parti e si lascerebbe pericolosamente l’intera istruttoria e quindi in gran parte l’esito del processo in balia delle decisioni immodificabili istruttorie del giudice.

Se si considera che già oggi, ove il giudice monocratico assuma, erroneamente, iniziative istruttorie pregiudicando una parte (ammettendo o non ammettendo una prova testimoniale, un documento, una consulenza), il sistema (posto che alla difesa penalizzata non è data idonea e tempestiva facoltà d reazione come il vecchio reclamo al collegio) non ammette idonei correttivi né in primo grado, né in appello, una simile proposta si manifesterebbe addirittura drammatica, imprevedibile, disarticolante e fonte di ingiustizie, con ulteriore perdita di credibilità del sistema giustizia.

Già oggi le situazioni nelle quali un simile sistema è stato adottato hanno dimostrato come i pregiudizi arrecati dalla sommarietà del rito siano gravi ed abbiano complicato il sistema anziché renderlo più celere e snello.

Simile proposta, concepita, al pari di altre, secondo una logica che vede sempre il Giudice al centro della scena, manifesta lo stesso difetto precedentemente colto, nel presupposto che la funzione decisoria di tutela dei diritti dei cittadini, che lo Stato esercita in regime di sostanziale monopolio, possa essere snella solo se esercitata in termini sommari o di sfoltimento preventivo nel presupposto che le dietro le cause non vi siano le sofferenze dei cittadini, ma solo fascicoli e pratiche da sfoltire ed archiviare al più presto .

Secondo tali iniziative, insomma, il diritto inalienabile alla giustizia civile, proprio di ogni cittadino, per essere attuato celermente, dovrebbe presupporre una rinunzia alle procedure garantistiche, considerandosi, in ottica ministeriale, condizionata dalla magistratura, le tutele processuali delle mere “pastoie” burocratiche.

Proposte pragmatiche di risolvere il problema dell’alto numero dei giudizi. Conferimento agli avvocati di un ruolo proattivo per l’anticipata soluzione dei conflitti.

Entrambi tali proposte appaiono oggettivamente peregrine e peraltro disattendono moltissime e giuste istanze dell’avvocatura, organo spesso dimenticato e la cui funzione per la soluzione dei casi è fondamentale.

Il mondo dell’avvocatura, spesso biasimato, ed a ragione, per molti eccessi e carenze, non deve essere pretermesso e relegato ad utenza di un servizio pubblico, ma deve essere rivalutato proprio in quanto fondamentale ed utilissimo per la soluzione della piaga di cui i cittadini si dolgono.

L’avvocatura, a seguiti di vari interventi normativi (di natura processuale, fiscale, di ruolo ecc.) negli ultimi tempi ha accusato una crisi, a discapito di una magistratura in alcuni casi addirittura invadente (Si pensi alla recente normativa processuale prevendente una riduzione dei casi di censurabilità delle sentenze di merito in cassazione).

La stessa ha un ruolo fondamentale e di assistenza delle parti nella ricerca di azioni conciliative preventive. La cennate iniziative la vedono fortemente pretermessa o non valorizzata nella ricerca di soluzioni conciliative, anche preventive, e, per di più, accusata di essere la fonte dei guai della giustizia, nonché ritenuta responsabile della distorsione delle regole e tempistiche, con azioni, eccezioni e barrage posti a freno di un veloce iter delle vertenze giudiziarie.

L’accusa è fondamentalmente ingiusta, non solo in quanto nega la funzione rilevante degli avvocati, come operatori di giustizia, al pari dei magistrati, ma in quanto conferma una cecità rispetto alle ragioni di aumento e di allungamento delle cause civili.

E sempre più frequente infatti assistere a cause, anche semplici, che vengono decise dopo anni ed anni, con un sistema processuale che pone il Giudice, ed i suoi tempi, unico e geloso arbitro mediatore ed istruttore del giudizio, e nel quale gli avvocati sono costretti, muti, solo ad attendere lontane udienze e nel quale il loro intervento non è invocato per assistere al meglio i clienti ed agevolare le decisioni, ma solo per convincere le parti a chiudere transattivamente le cause e cancellarle dal ruolo.

Spesso gli avvocati devono assistere passivamente ad ingiusti interventi istruttori del giudice, sovvertitori di un sistema processuale nato come rigido e dimensionato nel presupposto della immodificabilità delle deduzioni e richieste delle parti, sempre giustificati da esigenze di velocizzazione e di “carico del ruolo”, ma resi spesso “a gamba tesa” e scarsamente motivati.

In essi il magistrato, ove non vincolato da norme specifiche e pur genericamente in buona fede, ma errando nella valutazione, può pregiudicare, la posizione di una delle parti, con decisioni istruttorie affrettate, imprevedibili o non processualmente regolate e/o sindacabili in diritto. Sono innumerevoli i casi di sconfitte giudiziali subite da avvocati diligentissimi nelle deduzioni probatorie, che, se accolte, li avrebbero visti vincitori. Ciò per errori, anche macroscopici, compiuti per valutazioni istruttorie adottate, per celerità o sommarietà, nel corso del giudizio di primo grado, ma che, stante la loro sostanziale immodificabilità, condizionano in modo definitivo il giudizio anche per i successivi gradi.

Recentemente sono stati dettati dei protocolli nei quali la preoccupazione principale non è stata quella di rendere facile il compito di chi assiste un cittadino, impegnandosi nella sua difesa onesta e motivata.  E’ stata viceversa quella di limitare il numero delle pagine della difesa, di non formulare troppi capitoli di prova e di non allegare documentazione eccessiva.

E’ dato comprendere come, in un quadro normativo complesso come quello italiano, l’avvocatura, desiderosa non tanto di evitare una simile espansione del potere discrezionale del giudice, ma legittimamente gelosa che ruolo di tutela delle parti alla stessa attribuito dall’ordinamento, ha tentato di reagire, nella consapevolezza che la già la compromessa esigenza della certezza del diritto venga accentuata da una ancor più pericolosa incertezza delle regole processuali.

Ipotesi di soluzione con introduzione di regole processuali non dentro il processo, ma prima dello stesso

Pur a fronte dell’aumento dei contributi unificati, l’impossibilità, per motivi di budget, di aumentare le risorse e dei mezzi della macchina giudiziaria, non si è sino ad oggi assistito, pur con doverose e meritorie eccezioni, al raggiungimento di risultati prefissi ed il numero degli arretrati nelle cause civili è aumentato, anziché ridotto.

Se si è giunti a tale situazione, è proprio per il fallimento di molteplici tentativi normativi finalizzati a identificare soluzioni del problema all’interno del processo, sottovalutando, forme che, con il dovuto pragmatismo, potrebbero agevolate di soluzione dei conflitti, nell’auspicio dell’affermarsi di una cultura conciliativa preventiva che, agevolata da forme premiali, consenta di evitare ai cittadini il ricorso frequente alla magistratura.

Si impone, in sostanza, che il Legislatore affronti in radice la relativa problematica, riconsiderando in termini empirici, ma diversi, l’intero sistema che informa il giudizio civile, evitando interventi tanto inutili, quanto avventurosi e velleitari nel processo, ed adottando soluzioni che non guardino soltanto alla posizione del magistrato (di per se solo strumento di giustizia), ma anche dei cittadini (che del sistema sono i legittimi fruitori) e dei loro rappresentanti e tutori giuridici (gli avvocati).

Sempre più si afferma il convincimento che l’inefficienza della giustizia civile, che a sua volta comporta le distorsioni cui sopra si è fatto cenno, sia causata, da un lato, da impostazioni ideologiche di molte categorie, gelose di non perdere posizioni e preoccupati di una autentica modifica del sistema, dall’altro della mancata identificazione di effettivi strumenti di mediazione estranei al processo.

Il legislatore, ha ipotizzato una simile soluzione, e, con il Dlgs. n. 28 del 2010, ha introdotto, per alcune materie, un sistema di mediazione preventiva, introducendo alcune, seppur minime, agevolazioni, in caso di raggiunto accordo.

La soluzione, fonte di particolari complicazioni ed allungamento dei tempi per le parti e per gli avvocati, non ha raggiunto gli effetti sperati, identificandosene agevolmente le ragioni nella possibilità che l’istanza di mediazione sia resa anche in termini sintetici e non giuridicamente vincolanti (l’art. 4 del D.lgs 28/2010 impone di indicare  solo di “oggetto e ragioni della pretesa”) e, soprattutto, per la sostanziale inesistenza di idonee previsioni sanzionatorie per le parti ipoteticamente convenute intenzionate a sfuggire alla trattativa preventiva, che troppo spesso va deserta..

In tale ottica vanno quindi ricercate altre e più efficaci soluzioni preventive che stimolino le parti, in caso di potenziale conflitto, a raggiungere velocemente un accordo e ciò senza alcun intervento del Magistrato.

Ma perché tale finalità possa avere successo è necessario che il confronto transattivo sia approfondito e compiuto (con esposizione vincolativamente “vestita” della pretesa da parte attrice) e che la parte convenuta sia costretta, da parte sua, con idonea sanzione in caso di assenza, a partecipare realmente al confronto, ivi specificando, a fronte della chiara e vincolante posizione di parte attrice, una altrettanto chiara e vincolante posizione di parte convenuta.

Tale sanzione potrebbe essere identificata in forme di inversione della prova, nell’obbligo del pagamento, in caso di successivo ricorso al giudizio del doppio del contributo, nell’uso più marcato dell’art. 96 cpc in caso di soccombenza ecc.

Costringendosi le parti, con forme di coazione collegata alla convenienza ed alla perdita di posizione ed economica in caso di assenza, si verrebbe ad attuare, concretamente e pragmaticamente, quel sistema di approfondito confronto tecnico, dal quale molto più facilmente, stante anche l’impegno difensivo professionale imposto, scaturirebbero soluzioni mediate.

In tal senso può essere positivamente menzionata l’iniziativa introdotta in tema di licenziamento per giustificato motivo dalla modifica dell’art. 7 della legge 604/66 introdotta con l’art. 1, comma 40 della legge 92/2012, che ha previsto l’obbligo dei datori di lavoro, prima di procedere al licenziamento, di convocate il lavoratore avanti l’Ispettorato del Lavoro al fine di tentare una mediazione economica. Statisticamente, è stato verificato che, molte cause potenziali sono state evitate con beneficio delle parti e del sistema in generale.

Anche questa esperienza ha dimostrato come i principali attori di tale compito mediatorio non possono che essere gli avvocati, ad essi attribuendosi, per la competenza specifica, un ruolo nel tempo e dall’attuale normativa sottratto, essendosi voluta ascoltare solo la voce della magistratura, quasi che la stessa fosse l’unico vero agente del sistema.

Sono principalmente gli avvocati che, avendo “le carte in mano”, ascoltando le versioni dei propri clienti ed avendo il dovere di inquadrare giuridicamente ad essi la fattispecie sottoposta al loro patrocinio approfondito, conoscono perfettamente il punto di caduta dell’eventuale accordo e sono in condizione di convincere, carte alla mano, il proprio cliente, a risolvere la questione in modo conveniente e celere, anziché accompagnare acriticamente il cliente soccombente al conflitto giudiziario, con aggravio di costi di un giudizio con oneri nel merito ed alle spese.

Tale fase preventiva potrebbe naturalmente svolgersi avanti ad organismi di mediazione ovvero, in caso di accordo, direttamente tra avvocati i quali, nel rispetto di una procedura standardizzata, definibile come fase formale pre-processuale (prevedente una comunicazione formulata con esposizione articolata e motivata delle richieste, con indicazione delle prove, dei documenti offerti e dei testimoni richiesti, eventualmente corredati da dichiarazioni scritte) dovrebbero scambiarsi atti, difese e documenti, per poi concludere con le rispettive controdeduzioni ed eccezioni.

La fase pre-processuale dovrebbe terminare con un incontro, formalmente verbalizzato, con manifestazione formale di ogni parte ad una eventuale soluzione conciliativa resa con la formulazione di soluzioni prospettate in termini economici e titoli precisi.

Ciò, avendo gli avvocati ben presenti le ricadute in diritto del caso, renderebbe molto agevole il raggiungimento di un punto di incontro, che diverrebbe maggiormente probabile ove agevolato da forme premiali, di valenza fiscale, o, per le parcelle degli avvocati, di riduzione al 2% dei contributi previdenziali a carico del cliente ecc.

Stante il prevedibile favore degli avvocati per tali forme di conciliazione preventiva (gli stessi dovrebbero affrontare la questione una volta sola, senza frazionamenti temporali, e verrebbero pagati prima) e stante la rivalutazione del loro ruolo (si verrebbe a realizzare concretamente l’ipotesi concreta di mediazione assistita dagli stessi sempre auspicata, anche per le vertenze di lavoro), il sistema ne trarrebbe un innegabile vantaggio.

Ma il vantaggio maggiore verrebbe raccolto dal sistema giustizia.

Verrebbe sovvertito l’intero sistema di fase preparatoria dell’attuale giudizio di merito civile, così come concepito dall’art. 183 del codice di procedura, ed il magistrato, cui gli avvocati dovrebbero sottomettere il fascicolo dell’intera fase conciliativa, non solo non dovrebbe compiere alcuna attività conciliativa, eventualmente limitandosi a veder confermata l’indisponibilità conciliativa di una o di entrambe le parti, ma, acquisito il fascicolo, con le deduzioni, controdeduzioni  e prove già scambiatesi dalle parti, sarebbe in condizione di conoscere a fondo la causa sin da prima dell’udienza, e quindi, essendo fortemente avvantaggiato nell’istruttoria, non avrebbe alibi per una celere decisione del giudizio.

In tal modo si innesterebbe un circuito virtuoso, che vedrebbe composte molte cause in fase pregiudiziale, con limitazione dell’attività dei magistrati, i quali, affrancati dagli oneri mediatori e messi, da subito, in condizione di conoscere, studiando i fascicoli, le posizioni delle parti, corredate dalle controdeduzioni di risposta e dalla reciproche ipotesi conciliative, sarebbero messi in condizione da subito di emettere dei provvedimenti o di condurre più celermente l’istruttoria, senza procedere alle iniziali fasi di rinvii ex art. 183 c.p.c. che attualmente contribuiscono ad allungare i giudizi.

L’auspicio è comunque quello di vedere attuato un sistema che imponga comunque, ai magistrati, di fissare le udienze di precisazione delle conclusioni o di discussione in termini sufficientemente brevi.

Tutto il sistema infatti salterebbe se, come attualmente avviene sia in primo grado che in appello, le cause dopo una veloce fase istruttoria, rimanessero parcheggiate per mesi ed anni in ragione dei tempi lunghi necessari ai magistrati per stendere le motivazioni.

In tal caso emergerebbe in modo evidente la direzione delle responsabilità della lunghezza dei processi e delle soluzioni verso cui la politica dovrebbe indirizzarsi.

Roma 8 Gennaio 2017

Avv. Riccardo Chilosi

 

 

Avv. Riccardo Chilosi

Avvocato del Foro di Roma, cassazionista dal 1987, da sempre patrocina aziende e privati in campo giuslavoristico, curando il continuo approfondimento della materia ed intervenendo con contributi scientifici a convegni e dibattiti.
È autore di numerosi articoli, anche monografici su varie riviste giuridiche.
Ha svolto attività di docenza su varie tematiche giuslavoristiche in seminari e corsi preparatori organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma e da Associazioni Forensi Romane.
È da anni docente nel corso Management e Responsabilità Sociale d’Impresa presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (Angelicum).

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