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Pret. Roma 8/1/1998, Pret. Pocci; Bottoni ed altri c/ Banca di Roma S.p.A.

Lavoro (rapporto di) – contratto di lavoro svoltosi all’estero tra soggetti italiani – Accordo tra le parti circa l’applicazione al rapporto della legge straniera – Artt. 3, 6 e 16 della Convenzione di Roma del 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali – Appartenenza delle norme in materia di licenziamento (L. n° 604/66; art. 18 L. n° 300/70; L. n° 108/90) alla categoria dell’ordine pubblico italiano

L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, in quanto norma applicabile alle sole realtà imprenditoriali dimensionate secondo un limite numerico minimo, non può ritenersi norma inderogabile e, di conseguenza, non costituisce nemmeno un principio dell’ordine pubblico interno italiano.

Laddove, con riferimento ad un rapporto di lavoro costituito negli Stati Uniti d’America tra soggetti italiani, le parti abbiano convenuto in ordine all’applicabilità al rapporto stesso della normativa statunitense, non può ritenersi che la mancata previsione – da parte dell’ordinamento federale – di un istituto come quello della reintegrazione ex art. 18 L. 20 maggio 1970, n° 300, costituisca violazione di norme inderogabili di ordine pubblico di cui all’art. 16 della Convenzione di Roma e art. 16 della L. 218/95.

(omissis) – SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – Con ricorso depositato il 18 luglio 1996 i ricorrenti in epigrafe, premesso: di essere stati dipendenti della Banca di Roma S.p.A. presso la sede di New York; (omissis) di essere stati licenziati e di avere impugnato tempestivamente il recesso aziendale; convenivano davanti a questo Pretore la Banca di Roma S.p.A. per sentire ordinare, ai sensi e per gli effetti dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, l’immediata loro reintegra nel posto di lavoro, stante l’illegittimità dei rispettivi licenziamenti: ciò premesso il loro diritto, in qualità di cittadini italiani, all’applicazione della normativa di tutela vigente nel nostro ordinamento, essendo inoltre la legislazione americana in materia di recesso dal rapporto di lavoro ad opera del datore contraria all’ordine pubblico italiano.
Radicatosi il contraddittorio, la Banca di Roma S.p.A. chiedeva il rigetto della domanda. (omissis)

MOTIVI DELLA DECISIONE – La domanda è infondata.
Nella fattispecie in esame è incontestato che il rapporto di lavoro dei ricorrenti sia sorto negli Stati Uniti d’America.
E’ ugualmente pacifico che i ricorrenti abbiano prestato attività esclusivamente negli Stati Uniti. Alla luce della legislazione della suddetta nazione, il rapporto di lavoro è stato sempre regolato da un accordo individuale.
Tale prassi deve ritenersi, in base all’attuale normativa, legalmente legittima.
Ai sensi dell’art. 57 L. 31 maggio 1995, n° 218 le obbligazioni contrattuali «sono in ogni caso regolate dalla Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali resa esecutiva con la L. 18 dicembre 1984, n° 975, senza pregiudizio delle altre Convenzioni internazionali, in quanto applicabili».
L’art. 6 della Convenzione stabilisce che i rapporti di lavoro sono regolati dalla legge del Paese in cui il lavoratore, in esecuzione del contratto, compie abitualmente il suo lavoro oppure dove si trova la sede che ha provveduto ad assumerlo.
Accertato che entrambe le parti del rapporto hanno chiaramente scelto l’applicabilità della normativa americana (vedi oltre all’accordo individuale, le lettere dell’allora Banco di Roma in ordine alla normativa previdenziale federale applicabile al rapporto), non può condividersi la tesi della difesa dei ricorrenti, secondo la quale la legislazione americana in materia di lavoro, non sarebbe applicabile in quanto contraria all’ordine pubblico.
Tale affermazione si basa sostanzialmente sulla diversa disciplina del licenziamento.
Com’è noto negli Stati Uniti d’America non è prevista la c.d. “tutela reale”, ma è consentito al datore di lavoro di recedere dal rapporto senza indicare una giusta causa o un giustificato motivo. Come già affermato da questo Pretore in un’altra pronuncia il principio del recesso causale non può ritenersi nel nostro ordinamento di importanza fondamentale e, come tale, inderogabile dalla normativa straniera.
Basti pensare, infatti, che il legislatore italiano ha limitato la tutela reale solamente alle aziende con più di 15 dipendenti, mentre non mancano i casi in cui è consentito il recesso ad nutum (rapporti di lavoro domestico, prestatori di lavoro ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici, dirigenti di azienda).
La domanda proposta va, perciò rigettata. (omissis)

 

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Ordinanza Pret. Roma, 20/4/1998, Pret. Zocchi; Petruzzi c/ Valtur S.p.a.

Lavoro (rapporto di) – contratto di lavoro svoltosi all’estero tra soggetti italiani – Artt. 3, 6 e 16 della Convenzione di Roma del 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali – Appartenenza delle norme in materia di licenziamento (L. n° 604/66; art. 18 L. n° 300/70; L. n° 108/90) alla categoria dell’ordine pubblico italiano

L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e, più in generale, le norme poste a tutela del posto di lavoro costituiscono un principio dell’ordine pubblico interno italiano e rappresentano, pertanto, un ostacolo insuperabile all’applicabilità di normative straniere comportanti un regine sfavorevole per il prestatore in ordine al recesso datoriale dal rapporto di lavoro.

(omissis) – SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – Con ricorso depositato in Cancelleria in data 30.11.1996, il sig. Vasco Petruzzi adiva il Pretore di Roma deducendo:
a) di aver lavorato alle dipendenze della Valtur S.p.A., nel periodo 07.06/24.08.1996, presso il villaggio di pertinenza della convenuta sito sull’isola di Corfù, in qualità di “animatore, istruttore di windsurf e tuttofare”;
b) di aver svolto, nel suddetto periodo, una media di 14 ore di lavoro al giorno;
c) di essere stato licenziato in data 24.08.1996, con comunicazione orale da parte del Capo villaggio, sig. Beppe D’Arrico, nonostante l’assenza di qualsiasi giusta causa e/o giustificato motivo di recesso.
Sulla base di tali presupposti, il ricorrente chiedeva al Giudice, previo accertamento della natura subordinata del rapporto intercorso con la società convenuta, di dichiarare inesistente e/o inefficace e/o illegittimo il licenziamento comminatogli e di condannare, per l’effetto, la Valtur S.p.A. all’immediato ripristino del rapporto illecitamente risolto ed al pagamento di tutte le mensilità di retribuzione medio tempore maturate. (omissis)
Si costituiva ritualmente in giudizio la Valtur S.p.A. contestando integralmente le deduzioni ex adverso formulate ed eccependo, in via preliminare, l’inapplicabilità della legge italiana al rapporto intercorso tra le parti e, di contro, l’assoggettabilità dello stesso alla legislazione greca, stante il combinato disposto dell’art. 57 della l. n° 218/95 e dell’art. 6 della Convenzione di Roma del 19 giugno 1980.
Concludeva, pertanto, la difesa della Valtur S.p.A. chiedendo il rigetto della domanda spiegata dal Petruzzi o, in via subordinata, il ricalcolo delle differenze retributive eventualmente spettanti al ricorrente. (omissis)

 

– MOTIVI DELLA DECISIONE –

(omissis) In effetti, la richiesta di applicazione della legge greca è effettuata ai sensi dell’art. 6 della legge 18 dicembre 1984, n° 975, di ratifica e di esecuzione della convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, con protocollo e due dichiarazioni comuni, adottata a Roma il 19 giugno 1980; ma l’art. 6 della Convenzione prevede che, in deroga all’art. 3, nei contratti di lavoro, la scelta della legge applicabile ad opera delle parti non vale a privare il lavoratore della protezione assicuratagli dalle norme imperative della legge che regolerebbe il contratto in mancanza di scelta. L’art. 16 della Convenzione, inoltre, statuisce che l’applicazione di una norma della legge designata dalla presente Convenzione può essere esclusa solo se tale applicazione sia manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico del foro, ed è questo il caso di specie.
Infatti, la legge greca n° 2112 del 1920 prevede piena libertà di recesso per il datore di lavoro e rimedi soltanto obbligatori (in sostanza è previsto esclusivamente l’obbligo di preavviso).
Si è in pratica nell’ambito di una situazione analoga a quella disciplinata dall’art. 2118 c.c.; mentre nel nostro ordinamento vigono ben diverse normative, come la Costituzione del 1948, che contiene diverse norme riferite al lavoro (art. 1, 1° comma; art. 3, 2° comma; art. 4, 1° e 2° comma; artt. 35, 36, 37, 38; art. 46 e così via), la legge n° 604/66, la legge n° 300/70, ossia lo Statuto dei Lavoratori, la legge n° 108/90.
Nel nostro ordinamento non è ammissibile il licenziamento ad nutum, ma solo per giusta causa o per giustificato motivo. Il licenziamento per giusta causa soggettiva o disciplinare è ancorato a rigorosissimi requisiti formali e la liceità del licenziamento per motivo oggettivo è stata assai ridimensionata anche dalla giurisprudenza di legittimità.
In sostanza la legislazione laburistica greca è priva dei principi della rigorosità del licenziamento e della tutela reale; il che la rende incompatibile con il nostro ordinamento.
Come, infatti, il giudice italiano non può comminare pene che siano in contrasto con quanto previsto dall’art. 27, 2° e 3° comma della Costituzione, così non può applicare leggi laburistiche che considerino lecito il licenziamento, sempre, e non prevedano, comunque, forme di tutela reale. (omissis)
Né possono qui essere applicati altri articoli della legge greca, il 672, il 679 del codice civile greco, che comunque non prevede tutele reali.
Si vuole ritenere che la legge greca non è ostile ai lavoratori.
Ma certamente la legge italiana prevede maggiori garanzie, ed è per questo che, nel proprio ed esclusivo interesse, la convenuta preferirebbe l’applicazione della legge greca. (omissis)
Di conseguenza la presente controversia deve essere istruita e decisa sulla base dell’applicazione della legge italiana. (omissis)

 

NOTA

Le due decisioni in epigrafe offrono una stimolante occasione per effettuare una disamina delle norme della Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, che regolamentano i conflitti tra più leggi astrattamente applicabili al contratto individuale di lavoro.
E’ noto che, a seguito dell’entrata in vigore della L. 31 maggio 1995, n° 218 (che ha riformato il sistema italiano di diritto internazionale privato), la normativa convenzionale ha assunto (in virtù del combinato disposto degli artt. 57 e 73 della citata legge) un ruolo centrale nella regolamentazione delle obbligazioni contrattuali e, aspetto più interessante ai fini della presente analisi, di quelle derivanti dalla stipula di un contratto di lavoro.
Si premette – pur trattandosi di un rilevo di tale ovvietà da apparire quasi superfluo – che la Convenzione stessa trova applicazione solo laddove si prospetti un conflitto tra due o più potenziali leggi, tutte ugualmente invocabili in astratto, per regolamentare la fattispecie di volta in volta considerata; in caso contrario, ove non vi sia alcun elemento di estraneità rispetto all’ordinamento dell’organo giudicante, si applicherà la normativa interna competente.
In relazione al contratto individuale di lavoro, il legislatore internazionale ha dettato un’apposita regolamentazione (art. 6), che si discosta dalle linee guida tracciate agli artt. 3 e 4 della Convenzione stessa.
Nel presupposto che il contratto di lavoro sia connotato da alcuni aspetti del tutto particolari – tra i quali la debolezza economico–contrattuale del lavoratore, la conseguente situazione di diseguaglianza sostanziale delle parti del contratto nonché il vincolo di natura personale incombente sul primo – il legislatore stesso ha ritenuto che i principi affermati in generale dalla Convenzione dovessero trovare se non una vera e propria deroga, almeno una autentica limitazione (1).
Tale approccio appare condivisibile nella misura in cui si consideri che il potenziale lavoratore, in virtù della sua situazione di debolezza rispetto al datore di lavoro, possa “acconsentire” alla elezione di una disciplina straniera – meno favorevole di altra applicabile in virtù del richiamo ad altri criteri di collegamento – quale legge regolatrice del contratto.
Da tali considerazioni emerge la necessità di una tutela del lavoratore anche sul versante delle norme di diritto internazionale privato.
L’art. 6 della Convenzione, a tale riguardo, statuisce che:
«1. In deroga all’art. 3, nei contratti di lavoro, la scelta della legge applicabile ad opera delle parti non vale a privare il lavoratore della protezione assicuratagli dalle norme imperative della legge che regolerebbe il contratto, in mancanza di scelta, a norma del paragrafo 2.
2. In deroga all’art. 4 ed in mancanza di scelta a norma dell’art. 3, il contratto di lavoro è regolato:
a) dalla legge del paese in cui il lavoratore, in esecuzione del contratto, compie abitualmente il suo lavoro, anche se è inviato temporaneamente in un altro paese, oppure
b) dalla legge del paese dove si trova la sede che ha proceduto ad assumere il lavoratore, qualora questi non compia abitualmente il suo lavoro in uno stesso paese, a meno che non risulti dall’insieme delle circostanze che il contratto di lavoro presenta un collegamento più stretto con un altro paese. In tal caso si applica la legge di quest’altro paese».
L’art. 6 riportato affronta la problematica dell’individuazione della legge regolatrice del contratto, imponendo al giudice di comparare a posteriori la legge designata dalle parti (2) con quella che troverebbe applicazione, in virtù dei criteri di collegamento di cui al 2° comma della stessa disposizione: ove le norme imperative della legge naturalmente applicabile, identificata sulla base di uno dei tre criteri menzionati (tra i quali – è bene osservare – quello prevalente, nel caso di un loro contrasto, è quello del “collegamento più stretto”), siano più favorevoli delle disposizioni contenute nella legge designata pattiziamente dalle parti, saranno le prime a trovare applicazione. In tale prospettiva, dunque, la protezione del lavoratore viene realizzata rendendo inefficace la scelta di una norma diversa da quella più favorevole, altrimenti applicabile.
Ove, però, la legge designata venga a coincidere con quella risultante dall’applicazione dei criteri contenuti nell’art. 6, 2° comma della Convenzione, l’intento protettivo del lavoratore trova sotto tale versante un ostacolo insormontabile.
Assai significativa, a tal proposito, si rivela la prima delle due decisioni riportate: la questione ivi sottoposta all’attenzione del Pretore non consisteva nell’individuazione della legge regolatrice del contratto, a norma dei criteri di collegamento esaminati sopra, stante l’avvenuta elezione (ex art. 3, 1° comma della Convenzione) da parte dei contraenti, all’atto della stipula del negozio, della normativa statunitense quale fonte disciplinante il rapporto di lavoro.
Né l’oggetto della controversia risiedeva nella comparazione tra la legge designata dalle parti e quella ricavabile in forza dei criteri previsti dall’art. 6, 2° comma, atteso che, nel caso di specie, le suddette fonti coincidevano perfettamente tra loro: il lavoratore, già residente negli Stati Uniti, aveva prestato (in esecuzione del contratto) lì il proprio lavoro (locus laboris) e nello stesso paese risultava essere stato assunto (locus contractus); inoltre, da una serie di circostanze (tra le quali del tutto emblematica risultava essere quella che, in una lettera della filiale dell’Istituto di credito indirizzata al dipendente, si faceva riferimento a norme previdenziali federale) il contratto risultava collegato, in maniera più stretta, con l’ordinamento statunitense.
La vera questione affrontata dal Pretore di Roma nella prima decisione in commento è stata ben altra, occasionata dalla richiesta di parte ricorrente di dichiarare l’illegittimità – per carenza di giusta causa e/o giustificato motivo – del licenziamento comminatole dall’istituto di credito e di condannare, conseguentemente, quest’ultimo alla reintegra nel posto di lavoro ex art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Tali richieste venivano fondate sull’asserzione, non condivisa dal Giudice, che l’applicazione della normativa statunitense comportasse un contrasto con il principio dell’ordine pubblico del foro, nella misura in cui essa, non prevedendo la regola della causalità del recesso e forme di tutela reale del posto di lavoro, si poneva in insanabile contrasto con il nostro ordinamento, nel quale, al contrario, le medesime regola e forme di tutela sarebbero (a detta dei ricorrenti) consacrate al rango di principi fondamentali.
Il Pretore ha statuito per l’infondatezza della domanda avanzata, considerando che i principi invocati non possono considerarsi appartenenti all’insieme di valori costitutivi dell’ordine pubblico interno, in ragione del fatto che essi non trovano un’applicazione indifferenziata a tutti i rapporti di lavoro. Al contrario, ha rilevato il Pretore, «…il legislatore italiano ha limitato la tutela reale solamente alle aziende con più di 15 dipendenti, mentre non mancano casi in cui è consentito il recesso ad nutum (rapporto di lavoro domestico, prestatori di lavoro ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici, dirigenti d’azienda)».
A conclusioni diametralmente opposte, sulla questione in oggetto, è giunto il medesimo Giudicante nella seconda statuizione annotata, laddove egli si è pronunciato su un’eccezione preliminare sollevata dalla società datrice di lavoro, circa la necessità di applicare la legge greca (e non quella italiana) ad un contratto stipulato sull’isola di Corfù tra soggetti entrambi italiani.
In tale controversia, dunque, la questione da affrontare consisteva (diversamente da quanto sopra) nell’individuazione della legge regolatrice del contratto, stante la carenza di una “espressa scelta” operata dalle parti in tal senso. La stessa, in verità, avrebbe dovuto essere risolta facendo riferimento alle disposizioni negoziali e alle circostanze esterne al contratto, dalle quali sarebbe emersa l’elezione “implicita” della legge italiana quale lex contractus: a tale conclusione conducevano, infatti, taluni elementi quali la redazione del contratto in lingua italiana, il riferimento ivi contenuto a disposizioni fiscali del nostro ordinamento, la cittadinanza italiana di entrambe le parti, la previsione di un compenso in moneta avente corso legale in Italia, ecc..
Il Pretore, però, omettendo di andare alla ricerca della reale indicazione fornita esplicitamente o implicitamente dalle parti (in contrasto con quanto stabilito all’art. 3, 1° comma), ha immediatamente proceduto ad una comparazione tra la legge italiana e quella greca per verificare se quest’ultima – a prescindere dal ricorso ai criteri risolutivi di cui all’art. 6 – poteva trovare applicazione pur essendo più sfavorevole della prima per il lavoratore.
Sulla scorta di siffatto iter logico, non solo il Pretore ha rilevato che la normativa ellenica non poteva trovare applicazione in quanto peggiorativa per il lavoratore rispetto alla disciplina risultante dal criterio del collegamento “più stretto” (art. 6, 2° comma, ultima parte), ma ha, altresì, dichiarato – ed è sotto tale aspetto che l’ordinanza pretorile si rivela di maggiore interesse, ai fini della presente analisi – l’inapplicabilità (ai sensi dell’art. 16 della Convenzione) della normativa greca in quanto contrastante con l’ordine pubblico interno del foro competente, laddove essa non prevede forme di tutela reale ma meramente obbligatorie e non sposa in pieno il principio del recesso causale.
L’affermazione appena riportata, circa l’appartenenza dei principi del recesso causale e della tutela reale all’ordine pubblico italiano (3), si pone in stridente contrasto con le conclusioni cui è pervenuto il Giudice della prima pronunzia in commento.
Si pone, di conseguenza, la necessità di valutare quale delle due difformi posizioni abbia esattamente inteso la valenza dei richiamati principi nell’ambito del nostro ordinamento e, ancor prima, quale delle due abbia fornito una lettura dell’art. 16 della Convenzione più rispondente al ruolo che il legislatore internazionale ha attribuito al medesimo, alla luce di un’interpretazione sistematica della disciplina convenzionale.
A tale riguardo si deve considerare che, già sotto la vigenza del precedente sistema di diritto internazionale privato (di cui agli artt. 17-31 disp. prel. c.c.) e prima dell’entrata in vigore della Convenzione di Roma del 1980, ci si era posti in dottrina ed in giurisprudenza il problema dell’esatta definizione del ruolo da attribuire al principio dell’ordine pubblico internazionale, allora sintetizzato ed espresso dall’art. 31 disp. prel. c.c.(4).
La constatazione dell’assenza di una norma di diritto internazionale privato relativa al rapporto di lavoro (subordinato) e la conseguente necessità di applicare il generico art. 25 disp. prel. c.c. (relativo, nel 1° comma, alle obbligazioni contrattuali), aveva portato alla luce l’esigenza, in dottrina, di trovare un efficiente strumento di tutela del lavoratore: stante il fatto che l’art. 25 disp. prel. è una tipica norma di d.i.p. – come tale astratta ed assolutamente indifferente al risultato conseguente alla sua applicazione – ci si poneva il problema di rimediare all’inconveniente che, in virtù di essa, venisse individuata una regolamentazione straniera meno favorevole, per il lavoratore, di quella italiana. In tale contesto normativo, parte della dottrina aveva seguito la strada della valorizzazione del principio dell’ordine pubblico, nel quale si ravvisava lo strumento attraverso il quale esaltare il principio del favor per il lavoratore dipendente (5): ritenendo il favor laboris come principio fondamentale dell’ordinamento italiano ed asserendo la presenza di esso quale ratio ispiratrice pressoché di tutta la legislazione del lavoro, si tentava di perseguire l’effetto di un’applicazione esclusiva della legislazione italiana (nel presupposto della sua maggiore convenienza per il lavoratore) proprio attraverso il principio dell’ordine pubblico interno. Va, peraltro, segnalato che tale posizione di parte della dottrina ha trovato delle significative consacrazioni in alcune pronunce della giurisprudenza, anche di legittimità (6).
Se, dunque, nel sistema precedente, il principio di O.P.I. assolveva ad una funzione centrale, derivante dal fatto che si configurasse, almeno sul piano normativo, quale unico limite generale all’operare delle regole di conflitto, lo stesso principio risulta avere una collocazione differente nel sistema attuale di d. i. p. (in materia di obbligazioni contrattuali), quale risulta dalla vigenza della Convenzione di Roma, sulla base del rinvio ad essa operato dalla L. 218/95.
Si è già rilevato, infatti, come la Convenzione stessa sia improntata, in relazione alla categoria di contratti in oggetto, da un’istanza protezionistica delle ragioni del lavoratore, la quale trova un’emblematica consacrazione nel par. 6.1.
Tale norma di conflitto, attenta agli interessi materiali-sostanziali sottostanti ai fatti oggetto di disciplina (7), non costituisce, però, l’unico strumento per tutelare il lavoratore dal possibile operare, in pregiudizio delle sue ragioni, dei criteri di collegamento ivi contenuti.
L’art. 16 della normativa convenzionale (rubricato “Ordine pubblico”) stabilisce che: «L’applicazione di una norma della legge designata dalla presente convenzione può essere esclusa solo se tale applicazione sia manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico del foro».
L’autentica novità contenuta, però, nella presente codificazione delle norme di d. i. p. in tema di obbligazioni si può reperire nel par. 7 (8), nel quale trovano una consacrazione legislativa le c.d. leggi di applicazioni necessaria (a cui oggi fa riferimento anche l’art. 17 della L. 218/95).
Tali norme si connotano per il fatto che, in virtù della loro speciale forza, trovano applicazione di necessità, escludendo a priori l’operatività delle regole di conflitto. Non solo esse devono trovare applicazione, come sembra ovvio, ove appartenenti alla lex fori; ma «possono» trovarla – ed è tale l’aspetto di straordinaria novità – anche le norme, appartenenti alla menzionata categoria, proprie di un Paese terzo (diverso da quello della lex contractus e della lex fori), con il quale il contratto presenti uno stretto legame. Queste ultime, acquistano efficacia solo a seguito di un articolato quanto discrezionale giudizio di opportunità circa la loro applicazione, fondato sulla considerazione della loro natura e del loro oggetto, nonché delle conseguenze derivanti «…dalla loro applicazione o non applicazione» (9).
Se da un lato, pertanto, il testo convenzionale accoglie questa categoria di norme particolari (costituente un valido sistema di tutela del lavoratore ogniqualvolta – ad esempio – nella lex fori siano individuabili, con esattezza, delle disposizioni dotate di una simile forza), essa sembra, dall’altro, ridurre la possibilità di un ricorso all’ordine pubblico del foro quale limite successivo, operante a posteriori sugli effetti derivanti dalla regola di conflitto.
Nell’art. 16 si esclude, infatti, l’applicazione della disciplina designata in base alle regole di conflitto solo se manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico del foro.
Tali constatazioni, unite alla consapevolezza dell’intenzione del legislatore internazionale di limitare la possibilità che i giudici interni invochino, ad ogni piè sospinto, l’eccezione di ordine pubblico interno per applicare la lex fori anziché la legge individuata in base alle norme di d. i. p. (10) – allo scopo di evitare di avventurarsi in un ambito normativo (quello straniero) ostico e, per certi versi, imbarazzante – conducono a ritenere che, nella materia in esame, l’eccezione di O.P.I. abbia carattere del tutto residuale.
Ulteriori argomentazioni al fine di contenere il ricorso allo strumento in discorso sono state reperite, da una parte della dottrina, nel fatto che la Convenzione di Roma è stata adottata dai Paesi CE: la constatazione del carattere universale della stessa (art. 2) non impedisce di affermare la sua vocazione ad operare fondamentalmente in un ambito giuridico integrato ed armonizzato quale quello comunitario, in cui sembra difficilmente concepibile un contrasto tra la legge straniera designata ed i valori fondamentali della lex fori (specie se le due leggi siano entrambe appartenenti a Paesi membri della UE) (11).
Anche per tale via, la possibilità di impiego dello strumento dell’art. 16 dovrebbe trovare una sensibile mitigazione rispetto al passato, dovendo ridursi ai casi in cui tra la legge richiamata e la lex fori si ponga un contrasto coinvolgente i principi indiscutibilmente fondamentali di quest’ultima.
Laddove le considerazioni svolte, sotto un profilo squisitamente teorico, siano da ritenersi meritevoli di una certa approvazione, non può non condividersi quanto asserito nella prima statuizione esaminata, laddove si è esclusa la contrarietà della normativa statunitense con i valori giuridici fondamentali del nostro ordinamento. A tale riguardo, non può non rilevarsi – con il giudice – che il principio del recesso causale e la tutela reale non hanno nel nostro ordinamento un’applicazione “assoluta”, priva di significative eccezioni; specie, poi, se si faccia riferimento alla seconda, non v’è chi non veda che essa trova applicazione (seppur in maniera inderogabile) solo nel caso di un datore di lavoro con più di 16 dipendenti (o più di 61, a seconda del parametro territoriale adottato), venendo applicata una tutela meramente obbligatoria per i restanti 2/3 dei rapporti di lavoro (12). Lo stesso principio del recesso causale, la cui notevole estensione è fuori discussione, ammette, comunque, delle eccezioni in particolari settori (richiamati dallo stesso Pretore).
Si deve, in proposito, osservare che, almeno in linea di massima, un principio possa ritenersi fondamentale ed essere considerato «un limite invalicabile per i valori giuridici stranieri, in quanto il sistema escluda eccezioni alla sua applicazione» (13).
A tale stregua, la conclusione a cui dovrebbe pervenirsi sarebbe quella di condividere la prima statuizione pretorile esaminata, la quale si rivela certamente coraggiosa e – nella misura in cui sembra prendere atto del nuovo contesto tracciato dal sistema convenzionale – di rottura rispetto alla precedente giurisprudenza.
Essa, però, è inficiata in profondità dalla consapevolezza che la via delineata possa rivelarsi, paradossalmente, tale da ingenerare una diminuzione di tutela degli interessi dei lavoratori subordinati.
Il ruolo da attribuire all’ordine pubblico del foro dovrebbe, infatti, in conformità con il disegno del legislatore internazionale, divenire residuale a fronte della molteplicità degli strumenti protezionistici adottati dalla Convenzione ed impiegabili, di conseguenza, anche a favore del lavoratore.
Avuto riguardo, però, al fatto che il limite successivo di cui all’art. 6, 1° comma risulta essere destinato ad operare in presenza di quelle manifestazioni di “autonomia privata” (di fatto determinazioni unilaterali del datore di lavoro) più smaccatamente rivolte ad eludere la legge naturalmente applicabile(14); tenuto conto del fatto che l’individuazione delle disposizioni imperative di applicazione necessaria della lex fori risulta essere molto complessa, alla luce della mancata esemplificazione ad opera della Convenzione dei criteri alla luce dei quali procedere – in concreto – alla differenziazione, all’interno dei singoli ordinamenti, tra norme meramente imperative e norme di applicazione necessaria (15); tenuto conto, infine, della labile possibilità di invocare, quale reale e stabile strumento di tutela del lavoratore subordinato, le norme di applicazione necessaria di Paesi terzi (rispetto a quelli della lex contractus e della lex fori); atteso che, per l’applicazione di esse, il giudice viene chiamato ad una valutazione discrezionale, di particolare complessità (16), tutto ciò premesso, emerge la necessità di impedire che, sul piano operativo, la molteplicità degli strumenti di tutela del lavoratore si traduca nella loro inutilizzazione.
Sembra, in altri termini, che l’articolato disegno di tutela tracciato a livello internazionale –con la previsione di un limite alla libertà di scelta della legge regolatrice di cui al par. 6, 1° comma, con il riconoscimento di operatività delle norme di applicazione necessaria di cui all’art. 7 e con la previsione di un’eccezione di ordine pubblico avente natura residuale (e con carattere di norma di chiusura del sistema) – possa non trovare piena attuazione su un piano pratico.
La mancata indicazione di coerenti elementi di differenziazione tra le norme imperative riconducibili all’art. 7 e quelle eleggibili quali principi fondamentali di cui all’art. 16, nonché la mancata previsione di criteri che valgano a legittimare la designazione di talune regole quali norme di applicazione necessaria, impediscono, su un piano operativo, di relegare il principio di ordine pubblico interno ad un ruolo marginale.
L’incertezza in cui viene a versare il giudice e più in generale l’operatore giuridico, in un contesto quale quello presente, in cui si è provveduto a dare formale ingresso ad una categoria di norme fino a pochi anni fa esistente solo nelle concezioni dottrinali, diviene palpabile nelle due decisioni annotate. Incertezza, ancor più drammatica, ove si tenga conto che l’interprete è chiamato ad un ruolo di primo piano nell’applicazione della Convenzione, stante il fatto che essa prevede una serie di norme di difficile applicazione, le quali lo costringono ad accurate, quanto prudenti valutazioni.
E’ nostra modesta convinzione, dunque che nel breve periodo, fin quando, cioè, non si sia fatta chiarezza – a livello comunitario (magari per mezzo dell’apporto interpretativo della Corte di Giustizia) come a livello interno – sull’esatto significato delle norme di applicazione necessaria, non si possa comprimere in un ruolo di assoluta marginalità lo strumento di tutela (peraltro tradizionalmente impiegato dalla nostra giurisprudenza in materia giuslavoristica) costituito dall’ordine pubblico del foro.
A tale proposito, non dovrebbe costituire un ostacolo insormontabile il tenore letterale dell’art. 16, apparentemente relegante il principio in discorso ad ambiti operativi di assoluta eccezionalità.
In dottrina infatti, non mancano orientamenti di una certa consistenza che intendono quali inviti rivolti al giudice – ed operanti su un piano psicologico – a ricorrere con estrema prudenza allo strumenti di tutela in oggetto, quelle espressioni letterali a cui si alludeva (17).
Scongiurerebbe, d’altronde, l’avverarsi di un ricorso “di comodo” all’eccezione di ordine pubblico, ad opera di giudici poco inclini ad addentrarsi nella normativa di altro ordinamento, il tenore dell’art. 16, 2° comma della L. 218/95, il quale, in caso di contrarietà della legge straniera con lo stesso, recita che « .. si applica la legge richiamata mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa. In mancanza si applica la legge italiana».
La norma richiamata rassicura circa il rischio – paventato dal legislatore internazionale – che, almeno nell’ordinamento italiano, si realizzi un ricorso alla “clausola di riserva” in discorso (18), al solo fine di evitare lo sforzo di conoscere le norma straniere operanti in determinati settori.
Solo da tale angolo visuale si può dare una spiegazione della radicale diversità delle statuizioni annotate, nessuna della quali è, forse, suscettibile di essere biasimata, almeno sul punto oggetto del nostro esame.
E’ anzi probabile che, fin quando non si provvederà a fare chiarezza su certi concetti e su certe categorie di norme a cui la Convenzione fa riferimento, pronunce di così diverso tenore saranno sempre più frequenti, stante l’enorme difficoltà per l’interprete di mediare tra l’esigenza di scegliere il più idoneo degli strumenti di tutela accennati e la necessità di non tradire il principio del favor laboris, comunque, sottostante alle norme della più volte richiamata Convenzione.


(1) Su tale aspetto della Convenzione vi è un’opinione concorde in dottrina ; tra i vari interventi, cfr. U. Villani, I contratti di lavoro, in Verso una disciplina comunitaria della legge applicabile ai contratti internazionali, a cura di Treves, Milano, 1983, pag. 265 e ss., e specie pag. 278 e ss. ; M.E. Corrao, I rapporti di lavoro nella Convenzione europea sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, in Riv. Dir. Inter. Priv. Proc., 1984, specie pag. 91, ove l’Autrice sottolinea la circostanza che il legislatore europeo ha adottato una «visione realistica, perché la fiducia illimitata nel potere delle parti di designare liberamente ed in posizione di perfetta parità la legge regolatrice dei loro rapporti – come di regola accade in materia contrattuale – cede il passo, in questa sede, alla considerazione della subordinazione e quindi dell’evenienza che la supremazia di cui gode il datore di lavoro possa essere diretta non solo a predisporre la regolamentazione sostanziale del rapporto di lavoro, ma possa tradursi anche nella determinazione unilaterale della legge applicabile». In altra prospettiva M.M. Salvadori, La protezione del contraente debole (consumatori e lavoratori) nella Convenzione di Roma, in La Convenzione di Roma sul diritto applicabile ai contratti internazionali, a cura di Sacerdoti-Frigo, Milano, 1993, pag. 121 e ss.

(2) Nel risalire alla volontà delle parti, l’interprete non può prescindere dalle indicazioni fornite dal par. 3.1, dal quale sembra desumersi una distinzione tra i casi di scelta “espressa” della legge ad opera delle parti, rispetto a quelli di scelta “implicita”, desumibile dalle disposizioni del contratto e dalle circostanze esterne allo stesso ; cfr., sul punto, le interessanti osservazioni di T. Vettor, Rapporto di lavoro all’estero, licenziamento e legge applicabile secondo la Convenzione di Roma, (Nota a Pret. Milano, 5 gennaio 1995), in Riv. It. Dir. Lav., 1996, II, specie pag. 504.

(3) Cfr., nella stessa direzione, sent. Pret. Milano, 5 gennaio 1995, (con nota di T. Vettor, Rapporto di lavoro all’estero, cit.), in Riv. It. Dir. Lav., 1996, II, pag. 503, la quale ha affermato, in una fattispecie assai simile a quella in esame, che «l’art. 18 Stat. Lav. è comunque norma imperativa e di ordine pubblico internazionale»; per una critica alla apoditticità, sulla questione, della citata sentenza cfr. Vettor, op.cit., pag. 503.

(4) L’infelice formulazione dell’art. 31 delle disp. prel., negante effetto nel territorio dello Stato sia alle “leggi e agli atti di uno stato estero”, sia “agli ordinamenti e agli atti di qualunque disposizione o ente” sia, infine, alle private disposizioni e convenzioni” ove contrari all’ordine pubblico, ha dato origine, in dottrina, alla distinzione tradizionale tra ordine pubblico interno (quale limite all’autonomia privata) ed ordine pubblico internazionale (quale limite al richiamo di norme straniere). Su tale punto, cfr. G.B. Ferri, Saggi di diritto civile, Rimini, 1993, pag. 366 e ss., il quale critica l’espressione l’impiego dell’aggettivo “internazionale” quale elemento specificativo del concetto di ordine pubblico, anche alla luce del fatto che esso «individua i valori fondamentali del sistema che lo esprime, e se la sua funzione è quella di proteggere tali valori (…), il concetto stesso di ordine pubblico non può che ricavarsi dal sistema cui appartiene»; cfr. ,inoltre, L. Fumagalli, Art. 16. Ordine pubblico, in Nuove Leggi Civili Commentate, 1995, specie pag. 1087.

(5) Per tutti, cfr. Pocar, La legge applicabile ai rapporti di lavoro secondo il diritto italiano, in Riv. Dir. Inter. Priv. Proc., 1972, pag. 727 e ss.

(6) Cfr. Corte Cass., 6 settembre 1980, n. 5156, con nota di Pocar, Protezione del lavoratore e legge applicabile al rapporto di lavoro, in Mass. Giur. Civ., 1981, pag. 18 e ss ; critico verso la stessa G.B. Ferri, Saggi di diritto civile, cit., pag. 492 e ss. Cfr. inoltre, Cass., 9 settembre 1993, n. 9435, (con nota di C. Bonci, Appunti sull’applicabilità della legge straniera ai rapporti di lavoro ed il favor verso il lavoratore), in Giust. Civ., 1994, pag. 1315 ; Cass., 30 novembre 1994, n. 10238, in Not. Giur. Lav., 1995, pag. 98.

(7) Rileva, in proposito, M.M. Salvadori, La protezione del contraente debole (consumatori e lavoratori) nella Convenzione di Roma, cit., pag. 121, che la Convenzione in esame si inquadra in quella tendenza, definita come “materializzazione delle regole di conflitto”, secondo la quale, nella determinazione della legge applicabile ai diversi gruppi di situazioni e di rapporti, si attribuisce rilievo agli interessi sottostanti alla disciplina di questi ultimi ; tendenza, rileva inoltre l’Autrice, innovativa rispetto al tradizionale carattere delle norme di conflitto, le quali prevedono «criteri di collegamento operanti in via del tutto astratta e generica».

(8) Par. 7. (Disposizioni imperative e legge del contratto). – «Nell’applicazione, in forza della presente convenzione, della legge di un paese determinato potrà essere data efficacia alle norme imperative di un altro paese con il quale la situazione presenti uno stretto legame, se e nella misura in cui, secondo il diritto di quest’ultimo paese, le norme stesse siano applicabili quale che sia la legge regolatrice del contratto. Ai fini di decidere se debba essere data efficacia a queste norme imperative, si terrà conto della loro natura e del loro oggetto nonché delle conseguenze che deriverebbero dalla loro applicazione o non applicazione.
2. La presente convenzione non può impedire l’applicazione delle norme in vigore nel paese del giudice, le quali disciplinano imperativamente il caso concreto indipendentemente dalla legge che regola il contratto».

(9) Di “giudizio di opportunità” parla espressamente M.E. Corrao, Art. 7. Disposizioni imperative e legge del contratto, in NLCC, 1995, cit. specie pag. 1015.

(10) Cfr., sul punto, F. Mosconi, Qualche considerazione sugli effetti dell’eccezione di ordine pubblico, in Riv. Dir. Inter. Priv. Proc., 1994, pag. 5 e ss.

(11) In una simile prospettiva, si pone L. Fumagalli, Art. 16. Ordine pubblico, in NLCC, cit., specie pag. 1087, il quale sostiene la necessità di ricomprendere all’interno del principio di ordine pubblico del foro anche quei valori fondamentali affermati a livello comunitario, sia per mezzo delle norme contenute nei trattati istitutivi, sia per mezzo delle norme di diritto comunitario derivato, sia nelle prese di posizione della Corte di Giustizia. Per tale via, l’ordine pubblico degli Stati membri dovrebbe perdere la sua connotazione spiccatamente nazionale per aprirsi al recepimento dei valori fondanti dell’ordinamento comunitario e, conseguentemente, lo strumento di tutela di cui all’art. 16 dovrebbe intervenire (o meglio essere invocato dai giudici statali) anche in difesa di quei principi, costituenti, oltre che «fattore di integrazione sovranazionale», anche un «nuovo ordine pubblico “comunitario”».

(12) Conforme, sul punto, T. Vettor, Op. loc. ult. cit.

(13) Così G. Badiali, voce «Ordine Pubblico», in «Enc. Giur. Treccani», Roma, 1990, XXII, specie pag. 2, ove l’Autore specifica, però, che la considerazione riportata nel testo in tanto possa ritenersi fondata in quanto «non induca a confondere (….) i casi in cui non di eccezioni si tratti, ma di una sfera limitata di applicazione del principio, all’interno della quale quest’ultimo conserva tutto il suo rigore e tutta la sua rilevanza ai fini dell’ordine pubblico». Accresce la difficoltà di tracciare una netta linea di demarcazione in materia la possibilità di considerare le norme dotate di una simile forza cogente quali disposizioni di applicazione necessaria (oggi formalmente recepite nella Convenzione – art. 7 – nonché nella legge di riforma del sistema internazionalprivatistico) : su tale aspetto, cfr. sempre Badiali, cit., pag. 3.

(14) Constata la M.E. Corrao, I rapporti di lavoro nella Convenzione europea sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, cit., pag. 94, che lo «ius variandi di cui gode il datore di lavoro, e quindi l’evenienza che quest’ultimo possa influire sulla determinazione delle mansioni e del luogo di svolgimento dell’attività lavorativa, induce a dubitare se l’elusione abusiva della legge normalmente applicabile possa essere perpetrata soltanto attraverso il criterio della volontà o anche in altro modo».

(15 ) Vi è perfino, in dottrina, chi pone in dubbio, non senza ragione, la riconducibilità delle norme di diritto del lavoro alla categoria delle regole di applicazione necessaria, sulla base della considerazione che queste ultime – per l’automatismo con il quale esplicano la loro efficacia e, di conseguenza, mettono fuori causa le norme di conflitto e le norme da esse richiamate (potenzialmente anche più vantaggiose per il lavoratore) – possano, al limite, disattendere il principio del fabor laboris.

(16 ) I limiti della presente analisi impediscono di affrontare tale articolata problematica ; si rimanda, di conseguenza, ad alcuni contributi della dottrina : tra gli altri cfr. M.E.Corrao, Art. 7. Disposizioni imperative e legge del contratto, in NLCC, cit., pag. 1013 e ss. ; T. Treves, Norme imperative e di applicazione necessaria nella Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, in Verso una disciplina comunitaria della legge applicabile ai contratti, a cura di Treves, cit., specie pag. 32 e ss., il quale tra l’altro rileva (pag. 35) che «il problema della identificazione in concreto, e della elaborazione di criteri che consentano o facilitino tale concreta identificazione delle norme di applicazione necessaria, è il principale ostacolo incontrato dalla dottrina in questa materia». Cfr., infine, M. Frigo, La determinazione della legge applicabile in mancanza di scelta delle parti contraenti e le norme imperative nella Convenzione di Roma, in La Convenzione di Roma sul diritto applicabile ai contratti internazionali, a cura di Sacerdoti-Frigo, cit., specie pag. 28 e ss.

Avv. Paolo De Marco

Laureato con lode presso l’Università degli studi «La Sapienza» di Roma nel giugno 1997 (Tesi di laurea in diritto civile, in materia di clausole vessatorie).
Dal dicembre del 1997 collabora, continuativamente, con lo studio.

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