Licenziamento per giusta causa. Licenziamento ritorsivo. Prova per presunzioni. Criteri e prova del computo dipendenti. Reintegro nel posto di lavoro.

Interessante ordinanza di reintegrazione nel posto (legge 92/2012). Il Tribunale di Roma ha ritenuto l’episodio contestato (diverbio seguito alle vie di fatto) non idoneamente provato dal datore di lavoro. Il Tribunale ha altresì ritenuto sussistente una ritorsività del recesso risultando provato che lo stesso fosse stato determinato da esclusiva intenzione di rappresaglia nei confronti del dipendente, colpevole di aver avanzato rivendicazioni nei confronti della Società. La sentenza si contraddistingue altresì per una puntualizzazione analitica delle porzioni di lavoratori ai fini di un convincimento circa il superamento dei limiti di organico utile per l’applicazione dell’art 18 S.L.

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI ROMA – 3° Sezione Lavoro

Il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro,

sciogliendo la riserva,

letti gli atti,

sul ricorso ex art. 1 comma 48 L. 92/2012, proposto da __________ ____________ nei confronti di ______________ S.R.L. in liquidazione, pronuncia la seguente

O R D I N A N Z A.

Con ricorso ex art. 1 comma 48 L. 92/2012, depositato il 17.3.2017 __________ _________, adiva il Tribunale di Roma e premettendo di essere stato licenziato con provvedimento datato 24.11.2016 e ricevuto il 1°.12.2016 per avere avuto un diverbio seguito da vie di fatto con altro dipendente, sosteneva il carattere ritorsivo dello stesso e comunque illegittimo per insussistenza del fatto contestato, per carenza di proporzionalità e per avvenuta decadenza del datore di lavoro dall’esercizio del potere disciplinare e chiedeva in via principale l’accertamento della nullità del licenziamento stante la discriminatorietà dello stesso e la condanna della società alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno pari ad un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal licenziamento all’effettiva reintegra (pari ad euro 2.065,32); in subordine l’accertamento della non ricorrenza degli estremi della giusta causa o del giustificato motivo e, quindi, l’annullamento del licenziamento e la condanna della società alla reintegrazione e al pagamento di una indennità risarcitoria nella misura massima di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (art. 18, comma 4 S.L.); in via ulteriormente subordinata l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento per mancanza degli estremi della giusta causa e per l’effetto la condanna della società al pagamento di un’indennità risarcitoria di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (art. 18, comma 5 S.L.); in estremo subordine – ove non ricorressero gli estremi della giusta causa – la condanna della società al pagamento di un’indennità risarcitoria omnicomprensiva ai sensi dell’art. 8 L. 604/66 nella misura massima di 10 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Si costituiva in giudizio la società che – premettendo di avere cessato dal 30.4.2017 ogni attività – innanzitutto contestava l’improcedibilità del ricorso per mancanza del requisito dimensionale, nel merito sosteneva l’infondatezza delle domande avversarie, osservando come il licenziamento produce effetto dal giorno della comunicazione dell’avvio del procedimento disciplinare (art. 1 comma 41 L. 92/12), con conseguente legittimità del trattenimento dalle competenze di fine rapporto delle retribuzioni dei mesi di settembre, ottobre e novembre, posteriori all’avviso della procedura sanzionatoria.

All’udienza del 6.6.2017 il giudice ammetteva la prova per testi sulle circostanze del licenziamento e sulla consistenza numerica dell’azienda alla data del recesso, rinviando per l’espletamento all’udienza del 24.11.2017.

Medio tempore tuttavia il giudice titolare veniva trasferito ad altro ufficio e il Presidente del Tribunale con provvedimento del 26.2.2018 dava atto della disposta redistribuzione, tra altri magistrati, del suo ruolo insieme ad altri dell’Area Lavoro.

Quindi, insediatosi in data 4.4.2018, il nuovo magistrato designato per la trattazione della controversia con decreto del 5.4.2018 fissava l’udienza dell’8.5.2018 per l’escussione di due testimoni e poi quella del 20.6.2018 in cui – fallito il tentativo di conciliazione, acquisita la documentazione depositata dalle parti ed escussi altri due testimoni – la causa era trattenuta in riserva con concessione di un termine per note conclusive alle parti fino al 10.7.2018.

1. Parte resistente, costituendosi in giudizio, ha eccepito l’erroneità nella scelta del rito, avendo la società resistente una soglia dimensionale inferiore a quella di cui all’art. 18 S.L.

L’eccezione è infondata.

1.a. La prova del requisito dimensionale va fornita dal datore di lavoro (Cass. SS.UU. 141/2006).

La società convenuta non ha qui fornito tale prova.

1.b. L’art. 18 S.L., prevede al comma 8 “Le disposizioni dei commi dal quarto al settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti” e al comma 9 “Ai fini del computo del numero dei dipendenti di cui all’ottavo comma si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale. Il computo dei limiti occupazionali di cui all’ottavo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie”.

Come noto, nel determinare l’organico aziendale, si pongono essenzialmente due questioni: 1) quella della determinazione del momento in cui effettuare la rilevazione del livello occupazionale; 2) quella dell’identificazione dei lavoratori computabili in funzione delle specifiche tipologie dei rapporti di lavoro in essere.

1.c. Quanto alla prima questione può ritenersi qui applicabile il principio giurisprudenziale della “normale occupazione”.

Secondo consolidato e condivisibile orientamento della Suprema Corte, infatti, per stabilire il livello occupazionale del datore di lavoro, occorre rifarsi al criterio del livello di occupazione normale, quale risultante dall’organigramma aziendale nel periodo antecedente alla data del licenziamento, senza tener conto di contingenti ed occasionali riduzioni e/o aumenti di personale (cfr. in tale senso Cass. 1298/1996 e Cass. 13274/2003): l’indagine deve essere effettuata vagliando la situazione dell’impresa nel suo complesso, quale emerge dal diagramma delle variazioni del personale verificatesi nell’anno in cui e stato intimato il licenziamento ed operando un’armonica media non rigidamente e meramente quantitativa, ma che approfondisca il fenomeno nei suoi aspetti economici, congiunturali e sociali che possono di volta in volta identificare la reale ed oggettiva dimensione dell’impresa (Cass.4394/1974).

Si tratta in altri termini di tenere in considerazione i dipendenti impiegati per le normali esigenze produttive.

1.d. Quanto alla questione delle specifiche tipologie di rapporti di lavoro computabili, essa è in parte risolta dallo stesso art. 18 e in parte da ulteriori previsioni normative.

Segnatamente – per quanto qui interessa – per l’accertamento del livello dimensionale dell’______________ S.r.l., ai fini dell’applicazione della tutela dell’art. 18, devono computarsi nel calcolo anche i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario di lavoro effettivamente svolto (come chiarito dallo stesso art. 18 comma 9), nonché i lavoratori intermittenti (cd. a chiamata) come chiarito dall’art. 18 del d.lgs. 81/2015.

In particolare, quanto ai primi – lavoratori part time – essi devono essere computati in proporzione all’orario di lavoro svolto dal lavoratore a tempo pieno.

L’art. 9 del d.lgs. 81/2015 al riguardo chiarisce che “1. Ai fini della applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro, i lavoratori a tempo parziale sono computati in proporzione all’orario svolto, rapportato al tempo pieno. A tal fine, l’arrotondamento opera per le frazioni di orario che eccedono la somma degli orari a tempo parziale corrispondente a unità intere di orario a tempo pieno”.

Questa ultima precisazione normativa si è resa necessaria per risolvere positivamente, il dubbio interpretativo che si era posto in passato, in merito al conteggio delle ore lavorate dai dipendenti part time: la norma chiarisce ora che l`arrotondamento opera per le frazioni di orario eccedenti la somma degli orari individuati a tempo parziale corrispondente a unità intere di orario a tempo pieno (cosiddetto principio “pro rata temporis”).

L’arrotondamento non è, dunque, applicabile nei confronti di qualsiasi lavoratore individualmente considerato che renda la propria prestazione per un orario superiore alla metà di quello a tempo pieno, ma opera solo qualora la sommatoria delle ore lavorate dal personale a tempo parziale superi la metà dell`orario a tempo pieno osservato (così ad esempio nel caso di 4 rapporti part-time, rispettivamente di 20, 24, 32 e 34 ore, e di orario normale di 40 ore settimanali, al fine di determinare l`organico aziendale bisognerà effettuare il seguente calcolo: 20 + 24 + 32 + 34 = 110 e poi 110 : 40 = 2,75 arrotondato a 3 unità).

Quanto ai secondi, il contratto di lavoro intermittente (o a chiamata cd. job on call), come noto, era inizialmente previsto dal d.lgs. 276/03 (artt. 33 e ss.); è stato poi abrogato dalla L. 247/07 di attuazione del Protocollo sul welfare del 23 luglio del 2007; poi di nuovo ripristinato dal combinato disposto dei commi 10, lett. m) e 11 dell’articolo 39 del D.L. 112/2008, conv. in L. 133/2008, che ha abrogato le disposizioni contenute nelle legge “Finanziaria 2008”.

La fonte normativa è attualmente costituita dal d.lgs. 81/2015 che all’art 13 definisce il rapporto e i casi di ricorso ad esso come segue: “1. Il contratto di lavoro intermittente è il contratto, anche a tempo determinato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno. In mancanza di contratto collettivo, i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. (omissis)”.

L’art. 18 del d.lgs. 81/15 indica anche i criteri di computo nell’organico aziendale del lavoro intermittente: “1. Ai fini dell’applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro, il lavoratore intermittente è computato nell’organico dell’impresa in proporzione all’orario di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascun semestre”.

1.e. Pertanto e venendo al caso di specie, premettendo che il licenziamento del __________ è stato intimato nel mese di dicembre del 2016 (1° dicembre 2016) e prendendo qui come periodo di riferimento quello del semestre anteriore al licenziamento (luglio – dicembre 2016), in base a quanto sopra illustrato, per determinare l’organico aziendale occorre prendere in considerazione tutti i dipendenti occupati in quel semestre, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e pieno, nonché:

– per i lavoratori part-time sommare i periodi di lavoro da loro svolti, per poi dividere tale risultato per l’orario a tempo pieno svolto in azienda (di 40 ore settimanali);

– per i lavoratori intermittenti operare il calcolo in proporzione all’orario di lavoro spiegato nell’arco di un semestre, non dovendosi invece conteggiare i periodo di disponibilità.

La documentazione riversata in atti dalla parte ricorrente (visura CCIA del terzo trimestre 2016 da cui risultano 18 dipendenti) e dalla parte resistente (l.u.l.) ha permesso di accertare che nel semestre anteriore al licenziamento l’azienda ha occupato mediamente più di quindici dipendenti (circa 15,5), tenendo conto sia della dipendente part time D. Chiara, che dei lavoratori a chiamata, secondo il prospetto che segue.

TABELLA

È, quindi, integrata la prova che per lo svolgimento dell’ordinaria attività produttiva dell’azienda fosse necessaria la costante e continuativa presenza di oltre 15 dipendenti (dipendenti con contratto di lavoro a tempo indeterminato full time e part time + dipendenti intermittenti, cd. a chiamata).

Irrilevante è la deduzione circa la malattia della sig.ra C., in quanto anche il dipendente in malattia fa parte dell’organico aziendale e rileva ai fini del computo della soglia dimensionale; inconferente è il richiamo all’art. 29 d.lgs. 81/15 contenuto nelle note autorizzate, posto che la norma si riferisce ai dipendenti con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato mentre per i lavoratori intermittenti, cd. a chiamata (come tali qualificati nelle stesse buste paga) vi è la disciplina ad hoc contenuta negli artt.13 e ss..

Né il datore di lavoro ha fornito prova che operando i conteggi del livello occupazionale medio nell’intero arco dell’anno anteriore al licenziamento, i risultati sarebbero stati diversi e che cioè non si sarebbe superata la soglia dei 15 dipendenti.

Tanto rende superfluo prendere posizione sulla questione dell’esistenza di ulteriori dipendenti nel periodo in considerazione che avrebbero lavorato in assenza di regolarizzazione, tra cui la sig.ra O. che i testi L. e D., indifferenti e attendibili, hanno riferito svolgere attività lavorativa in ufficio amministrativo con orario di sei ore al giorno, per cinque giorni a settimana, per otto anni consecutivi (esperienza lavorativa che troverebbe conferma anche suo profilo Linkedin, prodotto in forma cartacea all’udienza del 20.6.18 dalla difesa del ricorrente).

2. Passando al merito, con lettera del 2.9.2016 il ricorrente riceveva la seguente contestazione disciplinare: “(…) Il 29.8. 2016, verso le ore 15.00, al cambio di turno presso il ricevimento Lei ha avuto una discussione con il Suo collega ed inferiore gerarchico sig. T. B., che stava prendendo servizio per svolgere il suo turno di servizio lavoro presso il ricevimento, relativamente alla redazione dei turni di lavoro. La discussione ha avuto dei toni molto accessi. Nel corso della discussione Lei ha utilizzato termini altamente offensivi e lesivi della persona e della professionalità del Sig. B., il quale Le ha detto di non ritenerla in grado di organizzare equamente i turni. Lei ha allora scagliato contro il Sig. B. il quaderno verde plastificato (piuttosto pesante) che contiene i turni stessi, fortunatamente senza colpirlo. Il Sig. B., alquanto stupito ed intimorito, ha raccolto il quaderno dicendole di non permettersi più un simile comportamento nei suoi confronti. Per tutta risposta Lei ha afferrato il Sig. B. per il collo e lo ha sbattuto al muro con violenza, lasciando la presa soltanto dopo circa dieci secondi (…)”.

Il __________ veniva contestualmente immediatamente sospeso dal servizio, con conservazione del trattamento economico fino al compimento della procedura disciplinare.

In data 6.9.2016 il dipendente inviava una lettera di giustificazioni.

Il 14.9.2016 la società chiedeva al lavoratore se intendeva esercitare il diritto all’audizione orale.

Il 20.9.2016 il __________ dichiarava di ritenere esaustive le giustificazioni scritte.

Il 13.10.2016 la società convocava il ricorrente per il giorno 18.10.16 ore 16.00 in via Aniene per rendere le giustificazioni in forma verbale eventualmente con l’assistenza di un rappresentante sindacale.

Il 17.10.2016 il dipendente chiedeva di spostare l’incontro alla data del 21.10.16 presso la sede Filcams Cgil Roma.

Il 16.11.2016 la società convocava il ricorrente per il 21.11.2016 ore 16.00 in via Aniene.

Il 21.11.2016 il ricorrente dichiarava che non intendeva presentarsi all’incontro e chiedeva la chiusura della procedura entro il termine di 5 giorni, essendo ancora pendente la sospensione cautelare.

In data 1.12.2016 il __________ riceveva la lettera di licenziamento per giusta causa datata 24.11.2016 recante il seguente testuale tenore: “Abbiamo ricevuto le giustificazioni da Lei rese a quanto da noi contestatoLe con lett. 2.9.2016 e riteniamo le stesse non sufficienti, non esimenti e non rispondenti al vero. Confermiamo in toto i fatti addebitati e la gravità dell’inadempimento. Pertanto ai sensi ed effetti dell’art. 2119 c.c., 7 St. lav. e in quanto occorra della regolamentazione collettiva Le comunichiamo il licenziamento per giusta causa a far data dalla ricezione della presente”.

3. Orbene, all’esito dell’istruttoria svolta nella presente sede sommaria, deve concludersi – innanzitutto – che non sia stata sufficientemente raggiunta la prova del fatto contestato e cioè che in occasione del diverbio occorso il 29.8.2006, il ricorrente abbia utilizzato parole offensive all’indirizzo del sig. B., scagliandogli contro un pesante quaderno ad anelli e che poi lo abbia afferrato al collo tenendo la stretta per circa dieci secondi.

Invero, pacificamente, nessun testimone ha assistito all’accadimento. Vi è solo la parola del B. contro quella __________. Le due versioni dei fatti convergono nel riferire che il giorno 29 agosto 2016, nel primo pomeriggio in occasione del cambio turno del __________, vi sia stato tra i due uno scontro verbale avente ad oggetto l’organizzazione dei turni di servizio e che esso sia accaduto nella hall dell’albergo presso il banco della reception. Le versioni, tuttavia, divergono radicalmente nella narrazione degli accadimenti, posto che il B. ha riferito che la discussione ha avuto toni molto accesi e che nel corso di essa il __________ ha utilizzato termini altamente offensivi e lesivi della sua persona e professionalità e che gli ha anche scagliato addosso, pur senza colpirlo, un quaderno verde plastificato piuttosto pesante e che poi alle sue rimostranze lo ha afferrato per il collo e sbattuto al muro con violenza lasciando la presa solo dopo circa 10 secondi. Invece il __________ ha dichiarato (nella lettera di giustificazioni e nella presente sede) di essere stato provocato dall’inferiore gerarchico che con atteggiamento aggressivo e polemico e alzando il tono della voce lamentava la sua incapacità nell’organizzare dei turni di servizio, di essere stato apostrofato con il termine “cafone” e poi insultato con frasi pesanti e parole offensive, fino a proferire la seguente minaccia “Ti mando due persone a spezzarti le gambe”, salvo poi desistere dall’intento aggressivo e allontanarsi.

In sostanza il ricorrente nega di avere aggredito verbalmente il collega, di avergli scagliato il quaderno e di averlo afferrato per il collo, ma anzi afferma di essere stato vittima di una condotta verbalmente ingiuriosa e di una minaccia.

Ciò posto, all’udienza dell’8.5.2018 il B., escusso come testimone, ha sostanzialmente confermato, salvo marginali precisazioni, la versione dei fatti di cui alla contestazione disciplinare, specificando che:

– il diverbio era accaduto nella hall vicino alla reception (“Al teste viene mostrata una foto prodotta dalla parte ricorrente, nell’accordo di parte resistente. ADR Riconosco nei luoghi ritratti nella foto il posto dove è avvenuta l’aggressione. Quando vi è stato il lancio del quaderno il __________ era dietro al banco e io stavo dalla parte opposta. Quando è avvenuto il fatto della presa per il collo io mi trovavo dietro alla reception nella parte dove ci sono i due quadri appesi (…)”;

– che subito dopo il fatto, egli era sceso al piano sottostante dove è ubicato lo spogliatoio perché voleva cambiarsi e andare via senza prendere servizio (“Io sono andato nello spogliatoio, che sta al piano di sotto, perché me ne volevo proprio andare via dall’albergo. Al piano di sotto trovo la governante sig. G. che mi ha visto cadaverico. Abbiamo parlato brevissimamente con la G. e lei mi ha consigliato di non andare via. Io invece mi sono cambiato e me ne stavo per andare, quando il sig. __________ in cima alle scale mi ha detto che avrei sbagliato ad andarmene perché avrei potuto perdere il posto di

lavoro. Quindi a quel punto io mi sono andato a ricambiare un’altra volta e ho preso servizio (…)”).

Dunque il B. in udienza ha affermato di avere incontrato la sig.ra G. nello spogliatoio al piano di sotto e di avere parlato con lei dell’accaduto in quella circostanza.

In questa cornice rilievo dirimente assume, pertanto, la deposizione della sig.ra G. Claudia, che escussa come testimone all’udienza del 20.6.2018 ha riferito che il giorno in cui è avvenuto l’episodio oggetto di causa ella era in servizio e che stava nella zona bar – caffetteria ed era il primo pomeriggio al cambio turno.

La teste ha dichiarato di non avere sentito niente e di avere visto ad un certo punto il sig. B. che saliva dallo spogliatoio ed era sconvolto. La teste ha dichiarato che il B. “a me ha detto che c’era stata una discussione forte con __________ e che erano venuti alle mani. La versione del B. era che il __________ gli aveva messo le mani al collo. Questo episodio si era svolto nello spogliatoio. Questo me lo disse il B.. Il B. mi disse che la discussione avvenne mentre si stavano spogliando nello spogliatoio. Poiché il B. stava andando via, io gli ho consigliato di non farlo perché altrimenti sarebbe stato abbandono del posto di lavoro. Lui rimasto in servizio. Il sig. Manichino aveva finito il suo turno e stava andando via”.

E poi ancora la teste alla domanda se avesse sentito delle persone litigare ha risposto “No io ho visto il B. venire da sotto e mi ha raccontato il fatto. ADR l’episodio le risulta accaduto al bancone della reception? Il B. mi ha detto che la presa al collo vi era stata di sotto. Poi se avessero discusso anche prima non lo so. Anche perché io non ho visto la discussione”.

Inoltre alla teste è stata mostrata la fotografia riproducente la hall dell’albergo e il banco della reception e la stessa ha riconosciuto i luoghi specificando che “la zona bar rispetto alla reception è molto vicina, è separata da una parete di cartongesso”.

Orbene, poiché non vi sono ragioni di dubitare della credibilità della deposizione della teste G., che è del tutto estranea all’episodio oggetto del giudizio, deve ritenersi anche in considerazione della precisione, della linearità e dell’assenza di contraddizioni intrinseche nel suo racconto che sia vera la circostanza da questa riferita per cui l’incontro tra lei e il B. vi fu al piano superiore e non nello spogliatoio e per cui il B. le riferì di essere stato aggredito dal __________ al piano di sotto mentre si cambiavano.

Inoltre la teste durante l’escussione ha ribadito più volte questo svolgimento dei fatti e ha anche negato di avere udito rumori provenienti dalla reception, che pure era contigua al luogo in cui ella si trovava essendo separata solo da una parete in cartongesso.

Pertanto dovendosi ritenere maggiormente credibile la deposizione della G., realmente indifferente ai fatti di causa, rispetto a quella del B., soggetto direttamente coinvolto nel diverbio e quindi all’epoca potenzialmente esposto all’azione disciplinare del datore di lavoro, risulta smentito quanto riferito dal dipendente circa l’incontro avuto con la governante nello spogliatoio e confermato invece che l’incontro ebbe luogo proprio al piano di sopra e che in occasione di esso il B. riferì alla donna che il litigio e l’aggressione avevano avuto luogo al piano di sotto, circostanze del tutto diverse da quelle dichiarate sia al datore di lavoro che poi in giudizio.

Ne discende che in presenza di due versioni – quella del _________ e del B. – diametralmente discordanti sui punti fondamentali, in assenza di riscontri esterni a supporto della versione offerta da quest’ultimo, ma anzi in presenza di una deposizione che la sconfessa, non vi sia un prova sufficiente del reale accadimento del fatto così come contestato.

Poiché poi il licenziamento è una extrema ratio, la valutazione delle prove circa la sussistenza del fatto contestato deve essere rigorosa e solo in presenza di un quadro probatorio lineare è possibile ritenere assolto l’onere probatorio gravante sul datore di lavoro (art. 5 L. 604/66).

Ciò che appunto difetta nella specie.

4. Tuttavia il ricorrente, prima ancora di chiedere l’annullamento del licenziamento per insussistenza del fatto contestato e l’applicazione della tutela di cui all’art. 18 comma 4 S.L., ha impugnato il licenziamento sostenendone la nullità perché discriminatorio e ritorsivo e ha, quindi, chiesto l’applicazione dell’art. 18 comma 1 S.L., tutela che come noto prescinde dal limite dimensionale del datore di lavoro.

4.a. Sul punto opportuno appare richiamare l’orientamento espresso, anche di recente, dalla giurisprudenza della Suprema Corte in merito al licenziamento ritorsivo.

La giurisprudenza di legittimità ha sempre sostenuto che il licenziamento per ritorsione diretta o indiretta è assimilabile a quello discriminatorio, vietato dalla L. n. 604 del 1966, art. 4, L. n. 300 del 1970, art. 15, e L. n. 108 del 1990, art. 3 (cfr. Cass. 12759/95; Cass.16155/2009; Cass. 6282/2011, Cass. 17087/11, Cass. 24648/2015) e che esso costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni (cfr. Cass. 17087/2011, Cass. 6282/2011, Cass. 3986/15).

Recentemente la Suprema Corte ha, in realtà, preso le distanze da questa impostazione affermando che “la nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l’art. 4 della l. n. 604 del 1966, l’art. 15 st. lav. e l’art. 3 della l. n. 108 del 1990, nonché di diritto europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere, sicché, diversamente dall’ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito sulla natura discriminatoria di un licenziamento che conseguiva la comunicazione della dipendente di volersi assentare per sottoporsi ad un trattamento di fecondazione assistita)” (Cass. 6575/2016).

Sebbene tale revisione critica, figlia delle recenti riforme legislative (di cui alla L. 92/2012 e al d.lgs. 23/2015), abbia importanti ripercussioni sia a livello concettuale che sul regime della prova sul versante del licenziamento discriminatorio, essa non stravolge i principi ormai acquisiti dalla precedente elaborazione giurisprudenziale in relazione al licenziamento ritorsivo che devono, invece, ritenersi confermati pure alla luce dei nuovi sviluppi.

In particolare l’onere della prova del carattere ritorsivo nel provvedimento adottato dal datore di lavoro grava sul lavoratore e può essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l’intento di rappresaglia, dovendo tale intento aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di un provvedimento legittimo (Cass. 10047/2004; Cass. 5555/2011; Cass. 6501/2013; Cass. 3986/2015).

4.b. Applicando questi principi al caso in esame, ritiene il Tribunale integrata la prova della ritorsività del licenziamento del ricorrente, essendo stato il provvedimento datoriale espulsivo determinato dall’esclusiva intenzione di rappresaglia nei confronti del dipendente colpevole di avere avanzato rivendicazioni economiche nei confronti della società.

Sono prova della ritorsività del licenziamento sia la tempistica dei fatti, sia la natura degli addebiti contestati, sia la mancanza di buona fede nella gestione della vicenda disciplinare da parte dell’azienda.

Sotto il primo profilo risulta che il 17 maggio 2016 il ricorrente aveva formulato alla società, a mezzo degli avvocati Riccardo e Leonardo Chilosi, una richiesta di pagamento di spettanze economiche e di risarcimento del danno legati al suo rapporto di lavoro (cfr. doc. 6).

La contestazione disciplinare è del 2.9.2016.

Risulta che il __________ abbia reiterato la richiesta di pagamento delle differenze retributive in data 8.11.2016 e che sia poi stato licenziato con lettera datata 24.11.2016 ricevuta il 1°.12.16.

Vi è, quindi, un primo elemento di contiguità temporale della vicenda disciplinare rispetto alle rivendicazioni economiche del ricorrente nei confronti della società (da quest’ultima giudicate “totalmente infondate” nella nota del 14.9.16, doc. 9 fasc. ricorrente).

Sotto il secondo aspetto, deve evidenziarsi la sproporzione tra il fatto addebitato al ricorrente e la sanzione del licenziamento in tronco con sospensione immediata dal servizio e ciò sia in assoluto, sia in rapporto alla persona del ricorrente, persona di fiducia dell’azienda e che non aveva mai dato fino a quel momento alcun problema disciplinare, ma aveva sempre tenuto un comportamento irreprensibile.

Invero anche ammettendo che i fatti si siano svolti secondo la versione fornita dal B., ciò che qui si esclude, egli stesso ha affermato che i toni del diverbio siano stati accesi da parte di entrambi i partecipanti e non ha bene specificato nella relazione scritta dell’accaduto e nel colloquio a voce con il direttore quali fossero esattamente le offese e le ingiurie che gli avrebbe proferito il __________ e alle quali egli non avrebbe replicato.

Solo in sede di esame testimoniale, sollecitato dal giudice, il B. ha rammentato che il ricorrente gli avrebbe detto durante il diverbio di essere “senza palle”, specificando che questa era una interlocuzione abituale per il ricorrente, sia nei suoi confronti che nei confronti degli altri colleghi e quindi di fatto appiattendo l’episodio ad una manifestazione di presunta – e peraltro mai in precedenza dedotta – consueta volgarità nell’eloquio da parte del direttore.

Quanto al lancio del quaderno e alla stretta al collo, lo stesso B. afferma essere stati senza alcuna conseguenza dannosa.

Insomma anche volendo astrattamente ammettere che il fatto sia realmente accaduto così come riferito dal B., ciò che qui radicalmente si esclude, esso non avrebbe legittimato l’irrogazione della sanzione espulsiva, perché il diverbio, innescato dall’insubordinazione del sottoposto circa presunti errori nella redazione dei turni da parte del superiore gerarchico, si sarebbe risolto nel proferire da parte di quest’ultimo le parole “senza palle” e in due gesti – il lancio di un quaderno e la presa per il collo per alcuni secondi – rimasti del tutto privi di conseguenze dannose per la vittima e per l’immagine dell’azienda, non avendo alcuno visto o udito alcunché.

Al contrario se l’azienda avesse valutato lo svolgimento dei fatti con serenità, senza prevenzione, ma secondo buona fede e correttezza, avrebbe dovuto tenere conto del momento di particolare concitazione, peraltro pacificamente caratterizzato da torni accesi di entrambi le parti, generato da una ingiusta critica del sottoposto avvenuta proprio al momento della fine di una giornata lavorativa e avrebbe dovuto dare peso al comportamento sempre corretto serbato dal direttore in 26 anni di servizio per l’hotel e così ridimensionare la gravità della condotta del __________ e semmai punirla con una sanzione conservativa.

Sul punto e per mero scrupolo si osserva che la circostanza che il diverbio litigioso seguito da vie di fatto e le gravi offese alla dignità e all’onore dei colleghi, siano comportamenti che – ove accertati – consentano il licenziamento per giusta causa (art. 183 lett. f CCNL Turismo e Pubblici Esercizi del 2010) non significa affatto che il datore di lavoro in presenza di essi non debba comunque compiere un vaglio in concreto della loro gravità e di verificare essi siano tali da fare cessare il rapporto fiduciario nei confronti del dipendente e da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto stesso e che non possa e non debba – in difetto – applicare sanzioni inferiori (cfr. arg. ex Cass. 5280/2013; Cass. 2906/2005).

Sotto il terzo aspetto la società ha dato immediatamente credito alla versione di uno dei due contendenti per giunta con minore anzianità e gerarchicamente inferiore, senza neppure preventivamente volere raccogliere la versione dei fatti dell’altro, promuovendo il procedimento disciplinare solo a carico del __________ – si ripete un dipendente svolgente un incarico di particolare responsabilità nella società per moltissimi anni e senza alcun precedente disciplinare – accompagnando la contestazione dell’addebito con la contestuale e immediata sospensione cautelativa dal servizio.

Dopo la contestazione dell’addebito non ha ritenuto necessario procedere all’audizione del ricorrente, né ad alcun tipo di approfondimento istruttorio: anche la convocazione contenuta nella missiva del 13.10.16 è in realtà frutto di un fraintendimento delle richieste del ricorrente e non dell’esigenza di fare luce e chiarezza sull’accaduto.

Essendosi trattato di un diverbio – cioè di uno scontro bilaterale tra due soggetti – occorso nella hall dell’albergo nel cuore del giorno e quindi di un fatto potenzialmente lesivo anche dell’immagine della società agli occhi dei clienti – è sorprendente che la direzione non abbia ritenuto di compiere approfondimenti sul reale svolgimento dell’episodio e che abbia dato subito per buono il racconto di uno dei due partecipanti, essendo del tutto verosimile che questi potesse fornire dell’accaduto una ricostruzione unilaterale e che invece i toni accesi e gli insulti potessero essere stati reciproci e che l’aggressione fisica potesse anche non essere affatto accaduta.

Ciò neppure a seguito della narrazione per iscritto da parte del __________ della propria versione dei fatti che appunto drasticamente negava di avere mai lanciato alcunché in direzione del collega e di avergli mai messo le mani addosso.

Ove avesse sentito ad esempio la sig.ra G., presente sul posto di lavoro il giorno del fatto, il datore di lavoro si sarebbe reso conto delle contraddizioni del raccontato del B. (con riguardo, ad esempio, al luogo di svolgimento del fatto).

Al contrario dopo un’attesa – del tutto inutile – di circa tre mesi, in cui nessun supplemento di indagine è stato svolto, il datore di lavoro ha licenziato in tronco il ricorrente, trattenendogli la retribuzione delle mensilità in cui era stato sospeso.

Il licenziamento sotto questo aspetto è anche tardivo, per essere stati superati i termini della procedura (art. 138 CCNL cit., ma anche art. 7 S.L. che esige pur sempre il rispetto del principio di tempestività del recesso), violazione che qui rileva quale ulteriore manifestazione del più grave vizio sostanziale.

Insomma la gestione del procedimento disciplinare manifesta una prevenzione nei confronti del __________ e un incomprensibile ed immotivato favore nei confronti dell’altro dipendente, ritenuto completamente attendibile senza necessità di svolgere approfondimenti o riscontri e sfuggito a qualsiasi responsabilità disciplinare.

Il carattere pretestuoso del licenziamento emerge, dunque, dal segnalato complesso di indizi gravi, precisi e concordanti (art. 2929 c.c.) che lasciano ritenere che esso abbia avuto una funzione esclusivamente punitiva, costituendo una ritorsione per le rivendicazioni economiche avanzate dal ricorrente.

4.c. In difetto di compiute allegazioni non si può poi procedere alla compensazione richiesta dalla resistente nella penultima pagina della memoria.

5. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo tenuto conto del comportamento processuale della parte resistente che non ha accettato, senza giustificazioni, la vantaggiosa proposta conciliativa giudiziale.

p.q.m.

Il Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro così decide:

– dichiara la nullità del licenziamento irrogato dalla società resistente al ricorrente in data 1°.12.2016 e per l’effetto ordina la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro e condanna la società al risarcimento del danno subito dal lavoratore stabilendo a tale fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, oltre accessori di legge;

– condanna la società resistente al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti per il periodo dal licenziamento all’effettiva reintegrazione;

– condanna la società resistente alla refusione delle spese di lite in favore del ricorrente che liquida in complessivi euro 5.000,00 oltre rimv. forf. al 15%, iva e cap come per legge.

Si comunichi.

Roma 16.7.2018

Il giudice del lavoro

Dott.ssa V. Cacace

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