Secondo credibili previsioni, dalla prossima estate, con l’auspicata attenuazione delle restrizioni determinate dalla pandemia, sarà rimosso il divieto di effettuare licenziamenti collettivi e licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo.

Ove non venisse accordata un’ultima proroga, richiesta a gran voce dai sindacati, magari differenziata in base ai diversi settori produttivi e modulata in ragione dell’effettivo stato di crisi, le aziende, dopo più di un anno e mezzo di limitazione “per edictum principis” del loro diritto (sancito dall’art. 41 della Costituzione) di regolare le dimensioni della loro attività e della loro organizzazione d’impresa, saranno nuovamente legittimate a disfarsi di lavoratori in esubero.

Se, da un lato, il ritorno alla normalità restituirà il giusto equilibrio giuridico ai contratti di lavoro, consentendo alle imprese di compiere corrette e più adeguate programmazioni dell’attività, il brusco e temuto sconvolgimento causato da una prevedibile ondata di recessi contribuirà ad amplificare le conseguenze sociali già laceranti create dal Covid 19.

Ci si è chiesti tuttavia se la brusca linea di politica economica di “congelamento” adottata dal governo Conte a marzo 2020, ed ancora in vigore, sia stata la migliore opzione nel contesto economico e giuridico italiano, essendo prevedibile che, dopo un periodo di compressione, ci sarà una dirompente ripresa dei recessi.

 

La scelta politica di bloccare i licenziamenti

Quando, lo scorso anno, il Governo, con provvedimento dapprima emergenziale, ma poi reiterato, ha inibito a tutte le aziende (grandi e piccole) di licenziare i lavoratori per motivi “economici”, accompagnando il divieto con costosissime e generalizzate forme di ammortizzatori sociali in deroga, attuate in deficit e con scostamenti di bilancio, la misura è stata salutata come un “must” dall’opinione pubblica (in minima misura bilanciata da critiche del mondo politico e mediatico) che non ha tuttavia ben compreso le conseguenze finanziarie e di politica industriale che una simile scelta avrebbe comportato.

Non sono mancate tuttavia perplessità e critiche tecnico economiche, avanzate soprattutto in ambito confindustriale, e ci si è chiesti se la risposta all’esigenza sociale innescata dalla crisi, anche se attenuata da aiuti, CIG e sostegni vari, potesse essere attuata con forme più idonee, più elastiche e meno pesanti per le aziende e, in definitiva, per il pubblico erario.

Ci si è chiesti in particolare perché, anziché, come di regola, aiutare i lavoratori destinatari di licenziamento con forme di sostegno alla disoccupazione, magari corrette con una modulazione eccezionale della Naspi, l’intervento economico pubblico d’emergenza si sia subito diretto a mantenere indiscriminatamente in vita tutta la forza lavoro del paese, in forme generalizzate e rigide, senza attenzione per situazioni definitivamente compromesse o necessitanti urgenti ridimensionamenti e, quindi, senza alcuna realistica pianificazione di costi e dei tempi.

 

Situazione in altri paesi europei

In altri paesi, anche europei, pur con forte impatto della crisi pandemica, si è differentemente preferito lasciare alle aziende la libertà di recesso, con intervento degli Stati nel sostegno ai disoccupati e in politiche attive del lavoro. L’esperienza italiana si è quindi manifestata unica in tutta Europa.

In Francia, per esempio, non c’è stato alcun divieto generalizzato, fatta eccezione per le aziende fruitrici di idonei ammortizzatori sociali, sanzionandosi solo licenziamenti fondati su ragioni economiche espressamente motivate dalla pandemia Covid. Nessun divieto neanche in Germania, dove è stato chiesto qualche requisito in più solo per i licenziamenti per ragioni organizzative e sulle riduzioni di orario. Sono stati consentiti i licenziamenti anche nel Regno Unito, mentre in Spagna il blocco è stato limitato ai licenziamenti per i sei mesi successivi alla fruizione di un ammortizzatore e comunque solamente per motivi economici strettamente legati al Covid.

 

L’originalità italiana

Per comprendere tanta originalità del nostro paese, è opportuno ricordare come il mantra della sinistra e soprattutto del sindacato, recepito storicamente anche da altre forze politiche, abbia teso ad accostare il licenziamento all’”esproprio” di un diritto del prestatore (l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 realizzò normativamente la teoria della tutela reale del posto di lavoro), con la conseguenza che, a fronte della crisi scatenata dalla pandemia, l’argine di contenimento di una prevista ondata di recessi è stato semplicisticamente, ma poco saggiamente, identificato nel “mantenimento dello status quo”.

Una simile risposta alle motivazioni emergenziali ha dato nuovo fiato alla cultura identificante il posto di lavoro come una “proprietà” del lavoratore, concetto che si riteneva superato dalla riforma Fornero del 2012 e dall’introduzione del Jobs act del Governo Renzi del 2015, discipline che, a fronte di un nuovo vaglio critico delle varie ipotesi di collaborazione coordinata e continuativa, hanno attenuato e ridimensionato, soprattutto per licenziamenti cosiddetti  oggettivi, le forme di reintegrazione nel posto di lavoro

E’ pertanto prevedibile che, in occasione del ripristino della legislazione ordinaria in tema di recessi collettivi e individuali, di natura economica o oggettiva, e magari con il pretesto di esigenze di gradualità e con un allungamento della CIG e con differenziazioni di settori (ad es. commercio, spettacolo e turismo), in nome di un contenimento della “fase esplosiva”, si rimanifestino tendenze politiche e sindacali finalizzate a “correggere” la portata dei provvedimenti del Jobs act, nelle forme sopravvissute ad alcune correzioni della Corte Costituzionale,  per ripristinare forme sanzionatorie più pesanti, di aggravamento delle indennità economiche o della reintroduzione di nuove ipotesi legittimanti la reintegrazione nel posto di lavoro.

L’evento pandemico diverrebbe quindi l’occasione ghiotta, auspicata da molti, per un graduale ritorno ad un sistema datato e blindato dei contratti di lavoro, non più considerato economicamente produttivo da una visione economica moderna e dinamica, che, nello spirito della flexsecurity, privilegi più la mobilità in uscita accompagnata da un incremento potente di efficaci politiche attive, tese a supportare il lavoratore in cerca del posto di lavoro, più che a tutelarlo nel vecchio posto divenuto antieconomicio, con sanzioni a carico di aziende che non ne abbiano più effettiva necessità.

 

Le strade alternative

Le moderne teorie economiche, suggerite anche dall’Isfol e dalle indicazioni della comunità europea (che ne suggerì l’adozione già in un libro verde del 2006), sconsigliano vivamente il contenimento della disoccupazione attuato con forme troppo marcate di tutela del posto di lavoro in quanto tale, ma incoraggiano forme di azione moderna (quale appunto la flexsicurity), i cui capisaldi, unitamente ad un allentamento dei vincoli dei recessi datoriali, sono:  la flessibilità degli accordi contrattuali,  gli ammortizzatori sociali,  le politiche attive e  i servizi pubblici per l’impiego a l’attività di formazione. Questo, a livello omogeneo ed europeo deve divenire il modello, quale strumento più efficace per garantire e sviluppare un’occupazione sana e produttiva.

Tale visione parte dal presupposto che le aziende privilegiano l’assunzione di lavoratori a tempo indeterminato quando la politica economica (intesa come legislazione del lavoro, giurisprudenza e sistema politico) del paese non sia mutevole, ondivaga, incerta ed effimera, ma sia stabile e consenta forme di programmazione e di investimenti a lungo termine, sussistendo sempre un interesse datoriale a non disperdere e a mantenere in servizio i  lavoratori muniti di adeguata professionalità e che possono far crescere l’impresa.

In tal senso, la chiave di volta della stabilità, viene identificata nella formazione dei lavoratori, e nella crescita professionale, aspetti su cui lo Stato deve investire la prevalenza delle risorse destinate all’occupazione.

In tal senso, sin dall’inizio della crisi innescata dal Covid 19, si sarebbe dovute programmare, investendoci, le forme più idonee ad aiutare i lavoratori a crescere e le aziende ad attuare un loro snellimento, incentivando forme di ristrutturazione in vista di ammodernamenti e di una veloce ripresa nel rilancio post pandemico e per innescare, al momento opportuno, un’immediata fiammata di nuove assunzioni.

 

L’opportunità dello sblocco dei licenziamenti

Secondo dati Istat, in Italia, nel 2020, pur con l’impressionante aumento della spesa in deficit per garantire i numeri di posti di lavoro del  2019, l’occupazione non è stata garantita, il tasso di occupazione in un anno è sceso dell’1%, con una perdita di oltre 400mila posti di lavoro (hanno perso il lavoro soprattutto gli stagionali, i lavoratori autonomi e quelli con contratti non protetti dal blocco dei licenziamenti) ed è facile prevedere che, con l’eliminazione del blocco ed il venir meno della cassa integrazione, i recessi aziendali di valenza oggettiva, individuali e collettivi, saranno, con la ripresa della legislazione ordinaria, nell’ordine di altre centinaia di migliaia.

La politica di contenimento, attuata nell’emergenza, ha avuto quindi solo un effetto di semplice tampone, senza alcuna visione di prospettiva.

E’ facile immaginare che, se, invece di seguire le politiche europee, lo Stato ritornasse ad appesantire o reintrodurre ulteriori sanzioni in caso di licenziamento, le aspettative di ripresa, nelle quali confidano le aziende e, con esse, i lavoratori, anziché essere favorite, sarebbero purtroppo fiaccate.

Fortunatamente, il New Genertion Eu, nelle sue linnee programmatiche, ha previsto stanziamenti che poco saranno utilizzabili dagli stati per finanziare forme di mero mantenimento e di sostegno ad aziende improduttive o a finanziare forme di cassa integrazione in deroga, per periodi lunghi, mentre ha previsto stanziamenti a favore dei giovani e per combattere la disoccupazione con armi nuove.

Ed è in tal ottica che ci si dovrà muovere, non impegnando più risorse per dispendiose casse integrazioni su rapporti mantenuti “vivi” senza logica economica o solo per “scoraggiare” i licenziamenti, ma valorizzando in modo intelligente, soprattutto in casi di riammordernamenti industriali, di informatizzazione di processi, di autentici ed efficaci interventi di professionalizzazione individuale, forme di flessibilità in uscita, impegnando fondi per accompagnare, formare e reindirizzare i lavoratori interessati.

 

La rivoluzione delle politiche attive

Questo enorme sforzo, mutuato anche da altre realtà europee, imporrà una autentica rivoluzione di budget, organizzativa e culturale dei centri per l’impiego e delle attività di formazione, con una vera e propria “chiamata alle armi” di tutte le realtà che oggi a livello pubblico e privato si occupano di recruiting, di assessment, di reindirizzazione, di conversione e di formazione, con utilizzazione di personale in tal senso adeguatamente formato ed in grado di valorizzare il bilancio e l’analisi delle competenze del personale (capability approach) alla ricerca di lavoro, capace di coniugare le potenzialità di ogni singolo con le esigenze del mondo produttivo.

Sarà inoltre vitale procedere ad un incremento delle collaborazioni tra scuole, università e aziende, con creazione di una rete informatica autenticamente in grado di porre in contatto, anche a livello interregionale e nazionale, domanda e offerta di lavoro.

Occorrerà sviluppare operazioni di orientamento, convincimento e formazione dei lavoratori disoccupati, per canalizzarli in settori ove ci sia maggior bisogno e domanda da parte delle aziende, introducendo metodiche, anche psicologiche, di incentivazione, di integrazione, di aiuto per coloro che, al fine di occuparsi e/o migliorare la loro posizione, debbano trasferirsi, con sostegno particolare ai giovani, anche incentivando mutui agevolati per finanziarsi studi universitari, corsi specialistici, stage, master ecc..

Sarà infine utile incanalare fondi europei nella creazione di cluster regionali di alta produttività e centri di ricerca mirati, incentivando forme di stretta collaborazione anche a fini di profitto, tra enti pubblici, università e aziende private interessate all’innovazione, per lo sviluppo di nuovi materiali, di nuove tecnologie, di nuovi processi, di nuove idee, di nuovi business, campi nei quali i nostri ricercatori sono all’avanguardia, ma per i quali l’attuale tessuto economico culturale necessità di uno svecchiamento in forme economiche più dinamiche e lungimiranti.

 

Ma l’Italia è pronta a tale diverso e nuovo modo di pensare?

L’attuale cultura politica del paese non solo non si dimostra pronta a tale sfida, ma vede tutt’ora ogni mese erogare, per forme di cassa integrazione in deroga, per sussidi di vario tipo, per aiuti a fondo perduto, per prepensionamenti a carico della collettività, somme ingentissime, sempre nel nome della “conservazione” di posti di lavoro e di una esigenza di ineludibile solidarietà, quasi che, impedire un ricambio o rallentare un processo economico senza sbocco costituisca l’unica soluzione per risolvere i problemi della disoccupazione.

 

L’ingiustizia di una tutela forte del posto di lavoro

Il paradosso di tale clichè culturale è che lo stesso è spesso qualificato come atto di giustizia sociale.

Niente di più ingiusto. La conservazione tout court di un singolo posto di lavoro, a carico  della solidarietà sociale, invocata senza tener conto delle condizioni del datore di lavoro, della genesi o della durata dello stesso ed indipendentemente dalle condizioni di assunzione, di reddito, di ambiente professionale, di alternative occupazionali, non è atto rispettoso del principio di eguaglianza sancito dalla Costituzione Italiana, posto che, in un contesto di ampia disoccupazione (che in Italia rasenta il 10% nazionale), con una distribuzione che accentua le ingiustizie, soprattutto a carico di giovani (30%) e donne (solo la metà della popolazione femminile attiva ha un lavoro regolare), gli “occupati” costituiscono comunque una categoria più fortunata dei “disoccupati”.

Non solo, le varie forme di penalizzazione dei licenziamenti e il perpetuarsi di un sistema sanzionatorio a carico delle imprese a tutela del “posto”, mantiene ancora nei fatti “ingessato” il sistema, disincentivando molte iniziative di ricambio e di riammodernamento, proprio quelle che, secondo letteratura economica, sono la fonte di nuove sfide tecniche, commerciali e di produzione, generative di nuove assunzioni.

L’economista Peter F. Drucker, disse che “l’azienda ha due funzioni fondamentali: il marketing e l’innovazione. Il marketing e l’innovazione producono risultati, produttivi e, soprattutto, occupazionali. Tutto il resto sono costi”.

La principale risorsa che l’azienda ha per differenziarsi è quindi la buona occupazione, aspetto che, principalmente nel suo interesse, deve tutelare, incrementandone una continua rigenerazione ed evitandone così la perdita di produttività e l’obsolescenza.

La velocità dell’economia impone quindi agli stessi lavoratori, se non vogliono disperdere le migliori opportunità e mantenersi competitivi, un impegno continuo a rinnovarsi ed a professionalizzarsi sempre più. Lo sanno bene i recruiters che, nei colloqui, non cercano tanto e solo di verificare le competenze dei candidati, quanto la loro capacità di  aggiornarsi ed affrontare nuove sfide professionali.

 

L’intervento pubblico

Lo Stato quindi, spendendo soldi per mantenere in vita posti di lavoro nel tempo superati, impedendo un naturale ricambio e non dedicandosi a formare nuove leve al di fuori del mondo occupato, accentua forme di ingiustizia proprio a carico dei disoccupati, socialmente, mediaticamente e politicamente meno visibili.

Sono sotto gli occhi di tutti le cosiddette “crisi aziendali”, molte delle quali incontrovertibilmente senza sbocco, per le quali pur di garantire i livelli di lavoro, lo Stato spende milioni di euro in aiuti a fondo perduto e in assegni per CIG in deroga.

Sarebbe più giusto che tali costosissimi interventi fossero destinati al riscatto delle fasce veramente povere, con l’intento di dare loro le opportunità che spesso la vita non ha dato loro, piuttosto che trasferire risorse dallo Stato già indebitato a singoli cittadini che spesso, vuoi per il TFR maturato, vuoi per le potenzialità di alternative professionali, vuoi per la vicinanza con la pensione, non ne avrebbero eguale necessità.

Il paradosso è che spesso, i lavoratori che ricevono incentivi, nell’ansia sociale di conservazione, sono restii a spenderli, e contribuiscono ad accumulare, a vuoto, risparmio su risparmio, elidendo la propensione al consumo che sola può far ripartire la giostra

Una simile politica ha quindi paradossalmente contribuito, nel tempo, a raffreddare e non a sviluppare il quadro occupazionale e produttivo del paese, privato del dinamismo autogenerativo che, in tempi ordinari, costituisce l’ossatura dello sviluppo.

 

Gli ostacoli al rinnovamento

Di tale cultura è responsabile una miopia che parte da lontano, figlia del familismo (che non dando spazio al merito, ma privilegiando criteri assuntivi amicali, tende a difenderne le posizioni acquisite), di un errato concetto economico del rapporto contrattuale di lavoro (che considera il “posto di lavoro” uno status e non un contratto a prestazioni corrispettive (indipendentemente dal valore aggiunto che lo stesso crea per l’azienda), di una impropria equiparazione culturale tra l’assunzione in un rapporto privato e la nomina in un settore pubblico, di un distorto concetto di solidarietà (da cui la Chiesa non è estranea), che identifica la stipula di un contratto di lavoro come un regalo, un premio, una concessione, da erogare a soggetti bisognosi e da conservare nel tempo non in ragione del mantenimento dell’equilibrio contrattuale, ma per il perdurare di esigenze sociali.

Ma la visione meno valida sotto un profilo di etico e di autentica giustizia sociale, (pur se contrattualmente lecita, ideologicamente accettabile) è quella del sindacato che, proprio in quanto rappresentante dei lavoratori “occupati”, è soggetto di parte, funzionalmente operante a loro esclusiva tutela. Lo stesso, trascinando populisticamente anche la politica, rivolge le proprie pressioni a difendere il bene primario dei propri iscritti e dei propri rappresentati, che è, appunto, il posto di lavoro, con le connesse positività e cioè il corrispettivo della prestazione e la continuità del rapporto.

Tali coacervo di forze ha tuttora forte gioco in un paese, come il nostro, nel quale la media cultura economica del cittadino non brilla ed ove le spinte demagogiche sono particolarmente accentuate.

Ne costituisce conferma la differente risposta di giustizia che la legge, lo Stato, l’opinione pubblica, il sindacato, i media, la Chiesa ed altri danno alla tutela di chi già ha un lavoro, ed è quindi socialmente visibile, rispetto a chi, magari più meritevole, ma meno fortunato, meno aiutato (perché giovane, perché donna, perché abitante in un contesto produttivamente meno ricco ecc.) non ha mai avuto o ha da tempo perduto l’occasione di lavoro e, pur eticamente destinatario di maggior attenzione sociale, è tuttavia relegato in un limbo di minor interesse politico o sindacale.

Ed è proprio per questo che le politiche attive del lavoro devono costituire una autentica rivoluzione economico culturale, nella nuova consapevolezza che, in  una visione dinamica dello sviluppo dell’occupazione, la vera giustizia non sia più rinvenibile nella tutela e nel mantenimento di situazioni di status, di “diritti acquisiti”, se non di privilegio, ma imponga di considerare tutti alla stessa stregua, senza garantire troppo qualcuno e non abbandonando nessuno, continuamente riproponendo a tutti l’opportunità di rigenerarsi.

 

La nuova giustizia del lavoro

In un recentissimo saggio, Carlo Cottarelli, ricordando Bobbio, enumera i tre principi di giustizia sociale [1]: Il primo è quello della giustizia giuridica, per il quale i diritti fondamentali, solitamente civili e politici, sono garantiti a tutti, in ugual misura, anche a costo di mantenere diseguaglianze di partenza; il secondo concetto è quello dell’uguaglianza delle opportunità,  delle chances o dei punti di partenza, cui si aggiunge necessariamente il principio del merito per la determinazione dei risultati; il terzo è quello dell’uguaglianza di fatto, quella dei punti di arrivo, che non dà la mera opportunità, ma garantisce a tutti i beni da conquistare, anche se non meritati.

Una saggia politica riformista, attenta a coniugare le leggi dell’economia con quelle del merito e della solidarietà, non può farsi abbagliare dalla terza visione, populista e non lungimirante, ma deve far tesoro delle più recenti esperienze, tenendo in considerazione che il new deal europeo sarà certamente impostato in tale direzione e la concessione dei poderosi aiuti economici offertici non mirerà alla distribuzione di aiuti per situazioni momentanee, statiche, in nome del mero bisogno e della conservazione acritica dei posti di lavoro, ma imporrà di privilegiare gli interventi destinati a sviluppare ciò che si manifesta economicamente positivo e produttivo, senza dispersione delle risorse in rivoli senza futuro.

Non si deve mai dimenticare che se, per costruire occupazione, i mattoni sono i lavoratori, la calce per garantire il lavoro non può essere costituita da una norma di legge o da un sistema sanzionatorio, ma si chiama know how, cultura, professionalità, motivazione, merito e diligenza, cioè il meglio di quanto l’uomo sappia esprimere.

Quello che manca è forse il coraggio di osare e di cercare diverse forme di realizzazione dell’individuo “faber”, anche con modificazioni radicali del sui essere collettiuvità.

D’altro canto, come ricorda Yuval Noah Harari, nel suo libro “Sapiens. Da animali a dèi”[2], i nostri antenati cacciatori raccoglitori (che hanno solcato la terra per un milione di anni) erano molto più liberi ed intelligenti dell’uomo fattosi contadino o pastore (negli ultimi dieci mila anni), proprio perché rischiavano ogni giorno, mettendosi continuamente in discussione.

Diversamente, gli agricoltori e allevatori, pur contribuendo ad incrementare le risorse alimentari, si erano ingabbiati in una la vita piatta, faticosa ed uniforme, nella quale la specie vegetale del grano ed animale delle pecore, dei maiali e dei bovini lo avevano sottomesso per diffondere in modo esplosivo il loro dna.

Per ulteriori millenni, il lavoro è stato svolto prevalentemente dagli schiavi, molti dei quali, coraggiosamente, hanno cercato di fuggire, spezzare le catene e ricostituirsi un futuro, mentre molti altri, pur avendo l’opportunità di riscattarsi, hanno codardamente preferito rimanere nella cattività e nell’ignavia.

Il tentativo di perpetuare questo vincolante patto di Faust e ritenere che il riscatto umano, nella sua migliore valenza, debba continuare a solcare il modello della subordinazione di una persona nelle mani di un altra, non appare esaltante, essendo più giusto tendere a forme più mature di dignità dell’uomo, affrancato dal ricatto sociale della dipendenza.

Mi auguro che l’occasione della ripresa post pandemica ed i condizionamenti europei aiutino il mondo del lavoro ad uscire dalla gabbia in cui da secoli si cacciata, procedendo ad una autentica rigenerazione culturale, nella ricerca di nuove, coraggiose, esperienze antropologiche, certamente più esaltanti dell’invocata panacea del blocco indiscriminato dei  licenziamenti.

Riccardo Chilosi

[1] C. Cottarelli “All’Inferno e Ritorno”, Feltrinelli 2021, pag,86

[2] Bompiani, 2020

Avv. Riccardo Chilosi

Avvocato del Foro di Roma, cassazionista dal 1987, da sempre patrocina aziende e privati in campo giuslavoristico, curando il continuo approfondimento della materia ed intervenendo con contributi scientifici a convegni e dibattiti.
È autore di numerosi articoli, anche monografici su varie riviste giuridiche.
Ha svolto attività di docenza su varie tematiche giuslavoristiche in seminari e corsi preparatori organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma e da Associazioni Forensi Romane.
È da anni docente nel corso Management e Responsabilità Sociale d’Impresa presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (Angelicum).

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